Il problema della rilevanza dell’errore-motivo è tra i più complessi del panorama penalistico, e questo non solo per lo scontro tra il dogma autoritario dell’incondizionata obbligatorietà della legge e il principio della responsabilità penale personale, ma anche, e innanzitutto, per impostazione dogmatiche non sempre corrette.

Il criterio razionale di distinzione, comunque, deve essere ricercato non tanto nella natura, facti o iuris, dell’errore, che riguarda piuttosto la causa della falsa rappresentazione, bensì nella diversità degli effetti psicologici ultimi e, quindi, dell’oggetto finale dell’errore

Proprio in forza della diversità dei relativi effetti va posta la summa divisio (artt. 4 e 47) tra:

  • errore sul precetto penale (divieto o comando), che si ha quando il soggetto si rappresenta o vuole un fatto che è perfettamente identico a quello vietato dalla norma penale, ma che egli, per errore di questa, crede che non sia illecito e che quindi non costituisca reato.
  • errore sul fatto, che si ha quando il soggetto, che ben può avere un’esatta conoscenza della norma penale, crede di realizzare un fatto diverso da quella da essa previsto.

Nel primo caso il soggetto erra sulla sola fattispecie legale, ossia sulla qualificazione penale del fatto commesso, mentre nel secondo erra sulla fattispecie concreta, ossia sulla corrispondenza del fatto commesso alla fattispecie legale.

La differenza tra errore sul precetto ed errore sul fatto sta nell’identità, nel primo, e nella diversità, nel secondo, del fatto voluto rispetto al fatto incriminato dalla norma. Per accertare se trattasi dell’uno o dell’altro errore, quindi, basta vedere, caso per caso, se per effetto dell’errore l’agente abbia voluto un fatto identico (errore sul precetto) oppure diverso (errore sul fatto) a quello tipico.

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