Per la concezione formale, risulta essere reato soltanto ciò che è previsto dalla legge come tale:

  • considerato in astratto, il reato è il fatto tipico, tipicità questa che rappresenta un carattere essenziale del reato. Il perno su cui ruota la concezione formale del reato, infatti, è la fattispecie legale o tipica, che costituisce sia l’apporto del principio illuministico-liberale del nullum crimen sine lege sia lo strumento tecnico attraverso cui vengono soddisfatte le esigenze garantiste di certezza giuridica e di difesa contro l’arbitrio giudiziario.
  • considerato in concreto, il reato è il fatto conforme al fatto tipico (alla fattispecie legale). Tale conformità, ovvero il presentare tutti gli aspetti costitutivi della fattispecie, è ciò che consente di considerare un fatto come reato. La mancanza anche di uno soltanto di tali elementi esclude l’esistenza del reato.

Poiché ciò che contraddistingue la norma penale è la sanzione da essa comminata, costituisce reato ogni fatto per il quale la legge statuisce una pena stricto sensu. La pena ( principale art. 17), quindi, è ciò che contrassegna in astratto un fatto come reato.

In base ai diversi tipi di pena, all’interno del diritto penale vengono distinti differenti tipi di reato. Il vigente codice italiano, in particolare adotta un sistema bipartito (art. 39):

  • delitti, ovvero i reati punibili con le pene dell’ergastolo, della reclusione o della multa.
  • contravvenzioni, ovvero i reati punibili con le pene dell’arresto o dell’ammenda.

 Nell’ambito della concezione legalistico-formale non si è mancato di considerare il reato anche dal punto di vista sostanziale, e questo non solo al fine di individuare i caratteri sostanziali comuni, che contrassegnano le varie ipotesi di reato, ma anche per differenziare l’illecito penale dagli altri illeciti extrapenali. Raffrontando il reato con gli altri illeciti giuridici e, in particolare, con l’illecito civile, la dottrina ne ha cercato la differenza sul piano pre-normativo, presentando una serie di criteri, le cui rilevate insufficienze hanno tuttavia dimostrato l’insuccesso di siffatta impostazione. Una precisa differenza sostanziale tra illecito penale e illecito civile, infatti, non esiste, trattandosi soprattutto di una distinzione legale ed estrinseca.

 Anche all’interno dell’illecito penale, comunque, i criminalisti si sono sforzati di trovare un criterio sostanziale di distinzione fra delitti e contravvenzioni. Ciò non solo in considerazione del fatto che la contrapposizione trae le proprie origini dall’assorbimento nel diritto penale di fatti che, in precedenza, costituivano solo illeciti amministrativi, ma altresì per le profonde differenze di disciplina (es. elemento soggettivo del reato, tentativo, misure di sicurezza). Il criterio di collocazione, che vale per il codice penale (delitti Libro II e contravvenzioni Libro III), non è ovviamente applicabile agli innumerevoli reati previsti dalle leggi speciali. Né è utilizzabile il criterio del tipo di pena ex art. 17. Risulta quindi comprensibile quella ricerca di criteri differenziali che raggiunge l’apice sotto il codice del 1889.

L’ipotesi principale è quella secondo la quale i delitti offendono la sicurezza dei privati (mala in se), mentre le contravvenzioni violano soltanto leggi destinate a promuovere il pubblico bene (mala quia prohibita). Pur contenendo elementi di verità, tuttavia, tale criterio non riesce a tracciare una linea ontologica di demarcazione tra delitti e contravvenzioni: esso, infatti, è smentito dal diritto positivo, perché esistono sia delitti di mera creazione politica, sia contravvenzioni che offendono la sicurezza dei privati ben più di certi delitti. L’insuccesso di tali sforzi ha portato a concludere che i delitti e le contravvenzioni differiscono non per la intrinseca natura, ma solo per la loro diversa gravità, non essendo le contravvenzioni che delitti nani. E poiché la maggiore o minore gravità dei reati dipenderebbe dalle valutazioni del legislatore, la qualifica di un reato come delitto o come contravvenzione sarebbe, in sostanza, il risultato di una scelta di politica criminale.

Il problema dei criteri distintivi sostanziali è tornato di attualità nell’ambito del dibattito sul diritto penale costituzionalmente orientato. La Circolare del 1986 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha ritenuto che debbano essere previsti come contravvenzione gli illeciti caratterizzati non dal solo fatto di essere minori, ma dalla loro stessa natura di (1) illeciti con funzione preventivo cautelare e di (2) illeciti concernenti la disciplina di attività soggette ad un potere amministrativo. La delimitazione delle contravvenzioni alle due suddette categorie di illeciti appare imposta dalla particolare disciplina contravvenzionale, giustificabile in funzione della natura dei suddetti reati.

 Le nozioni e i criteri sostanziali soprariportati, tuttavia, nulla hanno a che fare con la concezione sostanziale del reato. Essi, essendo di pura elaborazione dottrinale, non si sostituiscono né si aggiungono alla concezione formale del reato, ma si esauriscono su un piano meramente descrittivo: come tali possono, al più, costituire una genetica direttiva di politica legislativa, ma non una guida nell’applicazione della legge da parte del giudice. Quel che decide ciò che è reato, infatti, contraddistinguendolo dagli altri illeciti, è sempre il criterio formale della sanzione.

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