Art.629: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.

La fattispecie di estorsione richiede che l’agente ponga in essere una violenza o una minaccia strumentali affinché taluno faccia od ometta qualche cosa. Certamente vi è una certa affinità con il reato di rapina, tanto è vero che nell’estorsione si applicano le medesime aggravanti previste dall’art.628 (ad esempio “se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere”). E’ importante però stabilire la differente valenza della violenza e della minaccia nei due delitti, tenendo presente che la rapina è un reato a modalità di aggressione unilaterale, mentre l’estorsione è un delitto che richiede la collaborazione della vittima.

  1. Nell’ambito della rapina la violenza deve determinare una coartazione assoluta della volontà del soggetto passivo, il quale così non avrebbe nessuna possibilità di scelta rispetto alla condotta. Il rapinato è un mero strumento del rapinatore, e la eventuale consegna “volontaria” della cosa è solo una apparenza perché in realtà la volontà del soggetto passivo è completamente annullata dalla violenza del rapinatore.
  2. Nell’estorsione la violenza determina una coartazione solo relativa della volontà del soggetto passivo, al quale comunque residua una seppur minima possibilità di scelta nel decidere se fare od omettere qualche cosa: la sua volontà non è totalmente annullata. Occorre chiedersi poi se nell’estorsione è ammessa la violenza reale, cioè una violenza esercitata sulle cose. Per quanto riguarda la rapina il legislatore ha circoscritto il contenuto della violenza a quella esercitata sulle persone e pertanto, nell’ambito dell’estorsione, in mancanza di una espressa previsione in tal senso, è possibile configurare l’ipotesi di violenza reale.

Del resto ciò è confermato dalla prassi, che evidenzia come la volontà del soggetto passivo possa essere coartata da una violenza sulle cose: si pensi alle classiche ipotesi dell’incendio del locale per convincere l’imprenditore a pagare una somma di danaro.

La minaccia invece si sostanzia nella prospettazione di un male futuro che dipende dall’attività del soggetto agente. La minaccia può essere espressa, tacita, orale, scritta o posta in essere mediante un semplice avvertimento che acquisisce qualificazione di minaccia nell’ambito del contesto in cui viene pronunciato.

Occorre poi stabilire se un mero comportamento omissivo del soggetto agente può configurare il reato di estorsione. In merito vi è uno scontro tra la giurisprudenza che ammette la forma omissiva, e la dottrina che la ritiene incompatibile con l’art.40 comma 2 che richiede l’obbligo di impedire l’evento. Ad ogni modo, per fare un esempio, si pensi ai sindacalisti che abbiano proclamato un’agitazione all’interno dell’azienda e che minaccino di non interrompere (condotta omissiva) la protesta fin quando non venga corrisposto ai lavoratori un aumento salariale.

Secondo la giurisprudenza si tratterebbe di una estorsione omissiva, ma secondo la dottrina no, perché i sindacalisti non avrebbero alcun obbligo di impedire l’evento.

 

Costrizione

  • La violenza o la minaccia sono funzionali a costringere “taluno a fare o ad omettere qualche cosa”: il comportamento del soggetto passivo può manifestarsi in una condotta sia attiva che passiva. Si ritiene degne di tutela anche le semplici aspettative, così che può venire in rilievo anche una rinuncia all’eredità se sia stata determinata da una violenza o una minaccia.
  • Gli atti patrimoniali posti in essere dalla vittima devono essere validi. Qualora il soggetto ponga in essere atti nulli, questi, non avendo prodotto effetti, non provocano il danno previsto dalla fattispecie. Diversamente, gli atti meramente annullabili sono, come è noto, produttivi di effetti fino alla sentenza di annullamento, e pertanto sono capaci di ledere gli interessi patrimoniali della vittima configurando il delitto di estorsione.
  • Nel delitto di violenza privata (art.610), oltre alle condotte del fare e dell’omettere, caratteristiche dell’estorsione, troviamo anche la condotta del tollerare. La mancata inclusione di questa condotta nell’estorsione è dovuta al fatto che tale ipotesi è riconducibile al delitto di rapina, dove la vittima, non avendo possibilità di scelta, tollera il comportamento del rapinatore.

 

Ingiusto profitto con altrui danno

  • Diversamente dal furto e dall’appropriazione indebita, qui il profitto non è una semplice finalità, ma costituisce l’evento del delitto.
  • L’ingiusto profitto e l’altrui danno sono concetti autonomi, sicché è possibile che si verifichi solo uno dei due, senza quindi configurare pienamente il delitto.
  • Il danno deve sempre rivestire una dimensione patrimoniale, ed il profitto deve essere ingiusto. Sicché il danno non sussisterà nel caso in cui venga realizzato nel perseguimento di una pretesa tutelata dall’ordinamento.

 

Consumazione

Trattandosi di un reato di evento, la fattispecie si consuma con la sua verificazione, ossia con la realizzazione del profitto ingiusto e dell’altrui danno. Vi è tuttavia un orientamento che tende ad anticipare il momento consumativo del reato, come nel caso in cui il soggetto passivo si rivolga alla polizia accordandosi per arrestare l’estorsore al momento della consegna del denaro: in questo caso l’evento dannoso non si è prodotto ma il reato, secondo tale tesi, si è configurato.

Giurisprudenza e dottrina ritengono correttamente che non essendosi prodotto alcun danno per la vittima, il soggetto attivo debba rispondere solo di tentata estorsione.

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