In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali e del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di produrre irrimediabili distruzioni di risorse.

Occorre innanzitutto indagare se il diritto internazionale consuetudinario imponga l’obbligo di non compiere atti nocivi. Il problema che stiamo considerando si è dapprima posto nel quadro dei rapporti di vicinato, soprattutto con riguardo alle utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al territorio di uno Stato contiguo. Esso si pone oggi con particolare acutezza in relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultrapericolose e capaci di produrre danni anche a notevole distanza (es. centrale atomica di Chernobyl):

  • il principio n. 21 della Dichiarazione adottata a Stoccolma nel 1972 stabilisce che gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità non causino danni all’ambiente in altri Stati. Sebbene tale Dichiarazione non abbia di per sé forza vincolante:
    • la dottrina maggioritaria ritiene che l’obbligo sancito dalla Dichiarazione corrisponda al diritto internazionale consuetudinario, opinione confermata dalla Corte internazionale di Giustizia;
    • il Conforti nutre forti dubbi sulla possibilità di ricostruire un principio di diritto internazionale generale che imponga allo Stato l’obbligo di non provocare danni all’ambiente degli altri Stati: l’opinione maggioritaria, infatti, lungi dal corrispondere alla prassi degli Stati, rappresenta un mero ideale collettivo;
    • l’unico obbligo consuetudinario che sembra configurabile è quello che prevede l’obbligo dello Stato sul cui territorio si verificano gravi fenomeni di inquinamento di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo e l’obbligo per tutti gli Stati interessati di prendere di comune accordo misure preventive, o successive al verificarsi, del danno ambientale. Manca tuttavia un contenzioso tale da indurre a ritenere che gli Stati si sentano seriamente obbligati a non produrre danni all’ambiente di altri Stati.

Non bisogna peraltro confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con quelli predisposti dal diritto interno: se un’industria provoca danni nel territorio di un altro Stato, infatti, può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici di questo Stato (principio chi inquina paga );

  • ci si chiede poi se lo Stato non sia addirittura obbligato dal diritto internazionale a gestire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo sostenibile, della responsabilità intergenerazionale e dell’approccio precauzionale. In assenza di sicuri dati della prassi, la risposta non può che essere negativa.

Passando dal piano del diritto consuetudinario a quello del diritto pattizio, il discorso si fa diverso:

  • per quanto riguarda gli usi nocivi del territorio, gli accodi si sono andati moltiplicando negli ultimi anni. Essi, tuttavia, non comminano divieti specifici, ma si limitano a stabilire obblighi di cooperazione, di informazione e di consultazione tra le parti contraenti;
  • nella materia più generale della gestione razionale delle risorse, il numero degli obblighi convenzionali va crescendo (es. Protocollo di Kyoto del 1997 sulla riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti);
  • interamente di carattere pattizio anche la disciplina diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi origine (es. Convenzione di Nairobi del 1992).
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