Secondo il diritto internazionale classico, la possibilità di apporre riserve doveva essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari. In mancanza si riteneva che uno Stato non avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i modi attraverso i quali si prevedeva la possibilità di apporre riserve:

  • i singoli Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole, e quindi nel testo si faceva menzione di tale riserva;
  • il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione, ed in tale momento ciascuno Stato decideva se avvalersi o meno di una simile facoltà. Era tuttavia necessario che il testo specificasse quali clausole potessero essere oggetto di riserva.

Non era quindi ammissibile la ratifica di un trattato multilaterale accompagnata da riserve non previste dal testo del trattato stesso in uno dei due modi sopraindicati.

Nella disciplina dell’istituto si è verificata una notevole evoluzione, e questo per renderlo più duttile e quindi più idoneo allo scopo di facilitare la partecipazione degli Stati. Una tappa fondamentale di tale evoluzione fu segnata dal parere della Corte internazionale di Giustizia (1951): l’Assemblea generale delle NU chiese alla Corte se, non prevedendo la Convenzione sul genocidio la facoltà di apporre riserve, gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica. Nel rispondere la Corte affermò un principio rivoluzionario: una riserva può essere formulata anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Un altro Stato contraente, comunque, può contestare la riserva e se non si raggiunge un accordo sul punto il trattato non può ritenersi esistente nei rapporti tra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva.

La Convenzione di Vienna, ispirata dal parere della Corte, codifica anzitutto il principio che una riserva può essere sempre formulata a patto che (art. 19):

  • non sia espressamente esclusa dal testo del trattato;
  • non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo.

La riserva, peraltro, quando non è prevista dal testo del trattato, può essere contestata dall’altra parte contraente, ma se tale contestazione non viene manifestata entro dodici mesi dalla notifica della riserva questa si intende accettata (art. 20). L’obiezione ad una riserva, tuttavia, non impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo Stato che la formula e lo stato obiettante se lo Stato obiettante non manifesta espressamente e nettamente l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati (combinato disposto degli artt. 20 par. 4 e 21 par. 3).

Anche dopo la Convezione di Vienna la disciplina delle riserve ha continuato ad evolversi. Un’innovazione riguarda la possibilità che uno Stato formuli una riserva in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato, purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro dodici mesi. La tendenza innovativa più significativa, comunque, è quella che si ricava dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: la tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva (utile per inutilem non vitiatur).

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