Ogni ordinamento ha elaborato precise regole per determinare quando la decisione spetti ad esso (c.d. competenza giurisdizionale) oppure spetti ad altro ordinamento, ed ovviamente numerose sono le convenzioni fra Stati al fine di armonizzare tali regole.

Se invece le regole elaborate dall’ordinamento statuale hanno una portata logica che le svincola dal carattere territoriale dell’altro ordinamento, esse possono essere applicate anche all’ordinamento confessionale, che per comodità, a questi limitati fini, potrà dunque essere considerato ordinamento straniero. Ed è quello che si verifica in ordine alle modalità di riconoscimento dei poteri giurisdizionali degli ordinamenti confessionali.

Per quel che riguarda la condizione remunerativa “del clero che svolge servizio in favore della diocesi”, basterà ricordare che, pur essendo il “diritto a ricevere la remunerazione” una situazione soggettiva che prende corpo e tutela dal nostro ordinamento, individuazione dei soggetti aventi diritto alla remunerazione, criteri di determinazione dell’ammontare della stessa e modalità di integrazione da parte dell’Istituto per il sostentamento del clero sono rimesse a disposizioni normative (chiamate delibere) della Conferenza Episcopale Italiana. Ebbene, l’art. 34 c.c. 3-4 della legge n. 222 del 1985 prevede in ogni diocesi la formazione di “organi competenti per la composizione o la definizione dei ricorsi” avanzati dai sacerdoti nei confronti dell’operato dell’istituto diocesano circa la determinazione della retribuzione cui essi hanno diritto, stabilendo altresì che “contro le decisioni di tali organi sono ammessi il ricorso gerarchico al vescovo diocesano e gli ulteriori rimedi previsti dal diritto canonico”.

Esigenza che “debba essere evitata la possibilità di due diverse soluzioni della medesima controversia”, con la conseguenza che si è inteso il meccanismo realizzato come un sistema “di giurisdizioni concorrenti in via alternativa”, nel senso che si applicherebbe il “criterio della prevenzione”.

L’atto di matrimonio, essendo caratterizzato “da una disciplina conformata nella sua sostanza all’elemento religioso”, dovesse essere caratterizzato come uno di quegli atti che rientrano nell’ordine proprio degli ordinamenti confessionali.

Ma l’atto di matrimonio dinanzi a ministro di culto, accanto a caratteri religiosi o non profani,ne ha altri decisamente profani, sia per quanto riguarda la struttura, sia per quanto riguarda la funzione: il celebrante legge gli articoli del codice civile concernenti diritti e doveri dei coniugi.

Il matrimonio dinanzi a ministro del culto va dunque considerato come una situazione che, oltre ad elementi interni, presenta anche elementi di estraneità. Situazioni del genere sono ben presenti ad ogni ordinamento, il quale anche su questo piano elabora suoi criteri di collegamento. Questi criteri di collegamento fanno parte delle regole denominate di dir. Internazionale privato-processuale, e si compendiano essenzialmente nell’art. 3 della legge 31 maggio 1995 n. 218: “La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia”.

Si può dire che il collegamento attraverso i criteri del diritto internazionale privato, se pure produttivo di qualche inconveniente secondario, appare in linea di principio razionale, e oltre tutto implicitamente approvato dallo stesso ordinamento confessionale nel momento in cui ha accettato di apparire di fronte all’ordinamento statuale, per quel che riguarda la rilevanza del proprio potere giurisdizionale, proprio come straniero.

Inutile dire che il collegamento unilaterale attraverso la indicata regola di dir. int. privato potrebbe essere escluso nel caso che le due Parti abbiano contrattualmente stabilito “una espressa riserva a favore dei tribunali ecclesiastici”.

 

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