Potere di gestione

Occorre in primis tener distinto:

  • il potere di gestione, che spetta collegialmente al consiglio di amministrazione
  • dal potere di rappresentanza, che di norma viene conferito a singoli soggetti.

Gli amministratori, almeno in via di principio, hanno tutti i poteri per gestire in esclusiva l’impresa sociale. Di regola, pertanto, a livello decisorio, essi trovano un limite soltanto nell’oggetto sociale. Violando questo limite gli amministratori si trovano a compiere i cosiddetti atti ultra vires, irregolarità che può giustificare la revoca per giusta causa e la richiesta di risarcimento dei danni che ne fossero derivati alla società.

Accanto a questo limite d’ordine generale, di derivazione legale, lo statuto può porre ulteriori limiti particolari al potere di gestione, i quali possono soltanto assumere la forma di autorizzazione necessaria, da parte dell’assemblea, per il compimento di determinati atti. I limiti in questione debbono essere specifici e non possono avere latitudine tale da spogliare di fatti gli amministratori della loro funzione a favore dell’assemblea.

Potere di rappresentanza

A differenza di quanto dispone l’art. 2298, i poteri di rappresentanza non vanno di pari passo con i poteri di gestione, ma vanno oltre: l’art. 2384 co. 1, infatti, dispone che il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale. Quanto detto vuol significare che qualunque atto posto in essere dagli amministratori dotati di potere di rappresentanza, ancorché estraneo all’oggetto sociale, nei confronti dei terzi si configura come atto della società. Tale disciplina, quindi, porta a ritenere comunque valido l’atto, sebbene alla società sia implicitamente consentito l’exceptio doli, nel suo originario significato di strumento atto a paralizzare gli effetti dell’atto pur valido.

L’art. 2384 co. 2 dispone che le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società. Non basta, quindi, che i terzi, attraverso la pubblicazione nel registro delle imprese, siano posti in grado di conoscere i limiti posti ai poteri conferiti, e non basta neppure dimostrare che effettivamente li conoscevano, ma occorre dimostrare che, da parte loro, vi sia stato un intento dannoso (prova diabolica). I limiti che in tal modo possono essere posti ai poteri dei rappresentanza del presidente, dell’amministratore delegato o dell’amministratore cui sia demandato il compimento di un particolare atto, avranno per lo più come oggetto soglie di valore (es. un milione di euro) o categorie di atti (es. vendita di immobili). Essi potranno esser configurati come divieti assoluti o richiedere il rispetto di determinate procedure per il compimento dell’atto.

Quanto detto, chiaramente, vale solo per gli amministratori cui sia attribuito un potere di rappresentanza: qualora tale potere non vi sia, infatti, indipendentemente dalla possibilità per la società di conseguire l’annullamento dell’atto, sarà salva l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore.

Con riferimento ad altre situazioni implicanti problematiche analoghe a quelle qui indicate, il legislatore tratta il rapporto coi terzi usando espressioni diverse, le quali, comunque, non evocano la presenza del dolo. Al di là delle diverse espressioni utilizzate, e tenuto conto del fatto che vige il principio per cui la buona fede si presume, si può convenire che i concetti espressi sono sostanzialmente equivalenti a quello usato dall’art. 2384 co. 2 ( salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società ).

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