Con l’ascesa al potere del fascismo, non soltanto le forze politiche di opposizione, ma anche i sindacati rossi e bianchi furono di fatto eliminati. Ciò culminò nel patto di Palazzo Vidoni (1925), con il quale la Confindustria riconosceva alle associazioni sindacali fasciste il monopolio della rappresentanza sindacale. Si aprì quindi la strada al corporativismo, ovvero ad una visione organica della società, nella quale l’interesse dei singoli individui e delle classi doveva essere rigorosamente subordinato al perseguimento dell’interesse superiore della nazione.

Sul versante sindacale, questo si risolse in un drammatico ritorno al passato, caratterizzato dalla soppressione della libertà sindacale e della libertà di sciopero (l. del 3 aprile 1926). Pur ammettendo astrattamente la possibilità di costituire più sindacati, il governo si riservava la possibilità di conferire il riconoscimento giuridico solo ai sindacato legati al Partito nazionale fascista.

I contratti collettivi stipulati da tali sindacati, di conseguenza, erano dotati di un’efficacia erga omnes, ossia estesa a tutti i soggetti che appartenevano alla categoria. Questi contratti, inoltre, erano inderogabili a livello individuale, in quanto fra il singolo lavoratore ed il singolo datore di lavoro si potevano introdurre pattuizioni diverse da quelle del contratto collettivo soltanto al fine di attribuire al dipendente condizioni di miglior favore. Circa lo sciopero, esso fu penalmente incriminato nel codice penale del 1930 (codice Rocco). I conflitti di lavoro, infatti, avrebbero dovuto essere risolti da una Magistratura del lavoro appositamente costituita.

Se la disciplina sindacale registrò una netta cesura col passato liberale, vi fu una maggiore continuità, ed anzi uno sviluppo, sul piano della legislazione protettiva del lavoro e previdenziale (es. la legge sull’orario di lavoro, la legge sulle lavoratrici madri, la legge istitutiva del diritto al riposo domenicale e settimanale, l’istituzione delle forme pensionistiche facenti capo all’INPS).

Tale legislazione culminò nel codice civile del 1942 che, peraltro, portava solo in parte i segni dell’eredità corporativa, al punto che, con l’eccezione delle disposizioni in materia sindacale, ha potuto essere conservato anche nella fase post-costituzionale. Con il codice civile, infatti, la nozione di <<lavoro subordinato>> fece la sua comparsa ufficiale nella legislazione (art. 2094), merito questo attribuibile, almeno in parte, all’opera di Ludovico Barassi. Il principale merito della disciplina del contratto di lavoro fu quello di applicarsi indifferentemente, per la prima volta, a tutte le categorie di lavoratori subordinati, realizzando di fatto l’unificazione normativa del regime giuridico del lavoro subordinato.

Quanto detto, chiaramente, non toglie che la sistematica del codice civile risenta palesemente dell’influsso della cultura corporativa, a cominciare dall’inclusione della disciplina del contratto del lavoro non nel libro IV, bensì nel libro V, intitolato appunto al lavoro.

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