Ai sensi dell’art. 2096, la fase iniziale del rapporto di lavoro può essere contrassegnata dalla volontaria apposizione al contratto, nel momento della stipulazione, di una clausola accessoria recante la previsione di un patto di prova. Tale patto deve risultare, ad substantiam, da atto scritto, la cui mancanza fa sì che la clausola di prova si reputi non apposta.

Il periodo di prova, la cui durata, prevista dai contratti collettivi, può essere al massimo di sei mesi, ha la funzione di consentire ad entrambe le parti la convenienza dell’ affare . In coerenza con tale funzione, il periodo di prova rappresenta una fase speciale del rapporto di lavoro, durante la quale i reciproci diritti e obblighi (es. retribuzione e prestazione di lavoro) assumono una speciale coloritura: l’imprenditore e il prestatore di lavoro, infatti, sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova. Il datore di lavoro, in particolare, ha il dovere di mettere il lavoratore in condizione di dimostrare le sue attitudini professionali, in relazione alle mansioni per le quali è stato assunto.

Il maggior tratto di specialità della disciplina del lavoro in prova è dato dal particolare regime del licenziamento, il quale è incentrato sulla facoltà di recesso ad nutum di entrambe le parti. In sostanza, ad esse, e in particolare al datore di lavoro, viene lasciata la libertà di licenziare facilmente il lavoratore qualora ritenga che il patto di prova abbia avuto un esito negativo. Il rapporto di lavoro, quindi, viene a configurarsi come un rapporto già instaurato, ma sottoposto alla condizione sospensiva di un recesso al termine del periodo di prova.

Compiuto il periodo di prova, si ha la conferma del lavoratore, la cui assunzione diviene definitiva. Resta fermo che il periodo prestato a titolo di prova deve essere computato nell’anzianità del prestatore di lavoro.

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