Il licenziamento per ragioni discriminato­rie, di carattere ideologico, sessuale, di lingua di razza, è nullo secondo quanto disposto dall’art.3 L.108/1990, il quale richiama l’art. 15 st.lv. con l’applicazione del regime reale. Oltre che per motivi discriminatori il licenziamento potrebbe essere nullo per motivo illecito in quanto in contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico, con il buon costume (art. 1345 cc.); la nullità del licenziamento per motivo illecito diverso da quello discriminatorio non comporta l’applica­zione del regime reale se non in presenza dei requisiti numerici.

L’onere della prova del motivo discriminatorio o del motivo illecito grava sul prestatore di lavoro, il qua­le si può limitare a dimostrare, alla stregua dell’art. 2729 cc., le circostanze gravi precise e concordanti in base alle quali presumere che il licenzia­mento sia avvenuto per motivo discriminatorio o illecito; in tal caso si ha l’inversione dell’onere della prova nel senso che deve essere il datore di la­voro a dare la dimostrazione che il licenziamento è avvenuto per ragioni diverse da quelle discriminatorie o illecite. La prova contraria da parte del datore è la dimostrazione che il licenziamento è avvenuto per giusta causa, la quale prevale sempre sul motivo discriminatorio o illecito. Viceversa il giustificato motivo potrebbe non essere sufficiente se il la­voratore dimostri che lo stesso comportamento non sia stato nel passato, fuori dalla circostanze discriminatorie o illecite, adottato come giustifica­to motivo.

Il licenziamento è tem­poraneamente inefficace se avviene durante i periodi di sospensione della prestazione di lavoro ai sensi dell’art. 2110 cc.; esso riprende la sua effica­cia al momento della scadenza del periodo di sospensione, come il compi­mento del periodo di comporto di malattia. A diversa soluzione, quella della nullità, non della temporanea ineffi­cacia, si deve giungere nel caso in cui il licenziamento sia determinato spe­cificamente dallo stato di malattia o d’infortunio in cui si trovi il lavorato­re.

Nullità nel periodo di gravidanza e matrimonio. Per quanto riguarda il licenziamen­to della lavoratrice nel periodo della gravidanza fino ad un anno successivo alla nascita del bambino, se n’è sancita la nullità (art. 1 L. 1204/1971), salvo che il licenziamento stesso non sia av­venuto per colpa grave, che richiede la gravità, fino al dolo, dell’elemento psicologico del comportamento, o per cessazione dell’attività aziendale, da intendersi come attività nel suo complesso non di una singola unità produttiva. Nel caso in cui la gravidanza venga comu­nicata e certificata in ritardo ed il datore dia luogo ad un licenziamento, lo stesso deve essere revocato anche se la lavoratrice perde la retribuzione per il periodo che va dal licenziamento alla revoca. La mancata comunicazione dello stato di gravidanza non costituisce una giusta causa.

La nullità del licenziamento si ha anche nell’ipotesi in cui lo stesso venga adottato, salvo che per giusta cau­sa, per il periodo dalle pubblicazioni delle nozze fino ad un anno dopo la celebrazione del matrimonio (art. 1 co. 2 L. 7/1963).

 

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