Nel tempo si è affermato un chiaro orientamento di favore nei riguardi del contratto di lavoro a tempo indeterminato, anche per la maggiore garanzia che esso offre in termini di continuità del reddito. Dalla seconda metà degli anni settanta, però, si è modificato il corso dell’evoluzione normativa. Dapprima, il legislatore ha previsto nuove specifiche “causali” idonee a giustificare l’apposizione del termine al contratto di lavoro e, poi, ha attribuito alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre ulteriori causali, in aggiunta a quelle previste dalla legge.

Successivamente, il decreto legislativo 368 del 2001 ha adottato una diversa tecnica normativa, prevedendo, in luogo di specifiche causali (legali o contrattuali), una disposizione generale. In base a tale disposizione, l’apposizione del termine è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” e deve risultare – a pena di inefficacia – da atto scritto in cui le ragioni stesse siano specificate.

Nonostante la loro ampiezza, però, le “ragioni” giustificative del termine non potevano essere fatte coincidere con qualsiasi generica esigenza di assunzione e, quindi, doveva logicamente ritenersi che fosse necessaria la sussistenza di un diretto nesso di causalità tra le ragioni stesse e la decisione di apporre un termine di durata al contratto di lavoro.

In mancanza di tali idonee “ragioni”, è stato ritenuto che la clausola appositiva del termine fosse nulla e il contratto dovesse essere qualificato come di lavoro a tempo indeterminato. Infine, tra il 2012 e il 2015, il legislatore ha proceduto, contemporaneamente, sia a riformare le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo, sia a rendere più agevole la conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare, da un lato, è stata introdotta (per i nuovi assunti) la disciplina del contratto di lavoro subordinato “a tutele crescenti”, la cui unica differenza rispetto alla disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è rappresentata da un regime meno rigido delle conseguenze del licenziamento illegittimo.

Il che implica, nella sostanza, una riduzione della garanzia giuridica della stabilità che il contratto di lavoro a tempo indeterminato può assicurare. D’altro lato, l’apposizione del termine al contratto di lavoro è stata resa “acausale”, nel senso che non è più richiesta la sussistenza di alcuna specifica ragione di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo. Ne deriva che, oggi, il datore di lavoro è libero di scegliere se assumere con un contratto a tempo indeterminato o con un contratto a tempo determinato, cosicché i due contratti sono divenuti, da questo punto di vista, strumenti tra loro pienamente fungibili.

Ciò non significa, però, che il legislatore italiano abbia inteso contraddire il principio della direttiva comunitaria 1999/70, ed espressamente ribadito anche dalla disciplina nazionale, secondo il quale “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Il significato di tale principio deve essere ricercato tenendo presente che gli obiettivi individuati dalla disciplina comunitaria sono esclusivamente quelli di:

a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;

b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Ne consegue che, a livello europeo, come nella disciplina nazionale, il contratto a tempo indeterminato può essere considerato la “forma comune” dei rapporti di lavoro subordinato soltanto nel senso che i contratti a termine non possono formare oggetto di abusi nella loro reiterazione. La nostra disciplina nazionale ha “costruito” un sistema di prevenzione degli abusi più articolato ed incisivo di quello “minimo” imposto dalla normativa comunitaria, poiché prevede non soltanto una durata massima totale, ma anche ulteriori limiti in relazione alla proroga del termine, alla prosecuzione del rapporto alla sua scadenza ed alla successione di più contratti.

Inoltre, il legislatore ha inteso dare ulteriore, concreta manifestazione al principio che individua nel contratto a tempo indeterminato la “forma comune” dei rapporti di lavoro sia prevedendo un numero massimo di lavoratori che ciascun datore di lavoro può assumere a tempo determinato, sia prevedendo un maggior onere contributivo per le assunzioni effettuate a tempo determinato.

 

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