L’art. 3 co. 1, sancendo il principio di uguaglianza formale, costituisce l’espressione del classico paradigma liberale. Tale principio di uguaglianza, interpretato letteralmente, comporterebbe l’impossibilità di prevedere differenziazioni di trattamento, e quindi, in ultima analisi, di tener conto della diversità delle condizioni di fatto, vincolando così il legislatore ad una cieca e irrazionale eguaglianza dei trattamenti.

La Corte costituzionale, tuttavia, ha da tempo adottato una lettura ponderata del principio di uguaglianza formale, ispirato alla <<concezione valutativa>>, secondo la quale a situazioni eguali debbono corrispondere trattamenti uguali, ma a situazioni diverse trattamenti diversi.

L’art. 3 co. 2 si spinge oltre l’eguaglianza formale, proponendosi di sancire il dovere dello Stato di intervenire attivamente al fine di promuovere maggiore equità e di favorire l’inclusione sociale (uguaglianza sostanziale). La chiave di volta di questo secondo comma è nella locuzione <<di fatto>>, riferita a quella vasta gamma di situazioni economico-sociali che, pur non intaccando l’eguaglianza formale, impediscono il raggiungimento di un’uguaglianza reale.

Sul significato di questo principio, tuttavia, si riscontrano opinioni discordanti:

  • alcuni ritengono che tale principio comporti un’adesione da parte della Costituzione a visioni fortemente egualitaristiche della società (eguaglianza redistributiva in senso forte).

Al riguardo è innegabile che il diritto del lavoro, attraverso le leggi protettive, la contrattazione collettiva e la normativa previdenziale abbia rappresentato, e rappresenti, uno dei principali strumenti redistributivi.

  • altri propongono una lettura più moderata di tale principio, in base alla quale il compito dello Stato deve essere in primis quello di portare i cittadini al di sopra di una data soglia di soddisfacimento dei beni sociali essenziali, garantendo poi le condizioni per un’equa competizione tra gli individui ed i gruppi (eguaglianza delle opportunità).
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