Qualora le dimissioni governative siano formalmente volontarie, il capo dello stato può invitare il governo a ritirarle, rimanendo in carica fino a quando le camere non decidano di revocare la fiducia. Ma giuridicamente il governo non ha l’obbligo di aderire né all’una né all’altra di queste eventuali sollecitazioni; e l’unico dovere è quello di assicurare il disbrigo degli affari correnti. Anche nei casi più recenti, il capo dello stato si è sempre limitato a rivolgere un invito di presentazione alle camere; e nella prassi il suo sfavore non ha nemmeno atteso il voto di sfiducia, bensì ha troncato la discussione, rinnovando le proprie dimissioni nelle mani del presidente della repubblica.

Il fatto che nel nostro ordinamento il capo dello stato non possa rifiutare incondizionatamente l’accettazione delle dimissioni spiega il perché non si determini una vera e propria crisi quando si ha l’elezione di un nuovo presidente della repubblica. In situazioni del genere il governo presenta in verità le dimissioni; ma queste vengono puntualmente respinte e non rappresentano altro che un gesto puramente formale d’ossequio, ispirato al ricordo dell’ordinamento statutario e ad esigenze di galateo istituzionale. La sola situazione ipotizzabile si avrebbe nel caso che l’elezione del nuovo presidente della repubblica costituisse l’occasione del dissolversi della coalizione di governo: allora le dimissioni governative potrebbero anche venire accettate.

Si parla poi dei cosiddetti rimpasti ministeriali. Per rimpasto s’intende la sostituzione di uno o più ministri, operata senza aprire una crisi di tutto il governo. Ma la figura in questione è fortemente problematica. In linea di massima, la demarcazione dovrebbe essere tracciata ponendo l’accento sulle ragioni della nomina dei nuovi ministri: se queste fossero squisitamente politiche, la crisi diverrebbe allora inevitabile; se invece si trattasse di motivi personali, l’ostacolo sarebbe superabile mediante il rimpasto.

 

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