La grande duttilità del sistema britannico ha sempre resistito a tentativi di cristallizzazione, pertanto è arduo riuscire a trovare caratteristiche omogenee e costanti. Un filo conduttore è però ritrovabile nel fatto che fin dall’inizio il regime parlamentare è apparso come governo di partiti.

L’indirizzo politico è emanazione di un’opinione pubblica organizzata in partiti.

Il parlamento viene a configurarsi come espressione di un forte pluralismo e la rappresentanza politica è luogo di mediazione di interessi contrapposti.

In questo periodo appaiono soprattutto ad opera di Burke le ricostruzioni teoriche sul mandato imperativo: la difesa dell’indipendenza del deputato era indirizzata a perseguire quel compromesso che era l’essenza dello stato misto. Il sistema di governo è incentrato sul compromesso nella consapevolezza della centralità del partito politico.

Governo parlamentare e governo rappresentativo. Legal sovereignty e political sovereignty

Il governo britannico è quindi un governo di partiti. Esso è un importante laboratorio per lo studio delle esperienze di governo parlamentare tra Otto e Novecento. Lo studio su di esso ha dimostrato che la funzionalità del governo parlamentare fosse collegata al crescente sviluppo dei partiti politici. A questa intuizione si ricollegano due nodi problematici:

1. Riguarda il rapporto tra parlamento e governo. Divaricazione tra l’esperienza inglese dove vi era il nesso tra opinione pubblica organizzata in partiti e indirizzo politico, ed esperienza francese che configurò la responsabilità politica del governo come mera proiezione del potere di investitura delle assemblee rappresentative da parte del corpo elettorale.

2. Il secondo profilo problematico riguarda il carattere giuridico del governo parlamentare.

Fondamentale sotto questo punto di vista è la concezione di Locke che si colloca entro il filone giusnaturalistico-contrattualista. La sua tesi si fonda su una visione di concentrazione e subordinazione dei poteri. La distinzione delle funzioni si inscrive in una concezione del potere civile come potere derivato dai diritti dell’individuo nello stato di natura. Tutta l’organizzazione costituzionale è finalizzata alla protezione dei diritti individuali, protezione che è l’oggetto del contratto sociale.

Locke pone il parlamento in un ruolo primario, fondato sul consenso della cittadinanza politicamente attiva.

A questa visione si contrappone Jellinek il quale ritiene che nel sovrano si accentra un potere esecutivo e federativo.

Secondo alcuni autori la novità del pensiero lockiano sta nell’aver riconosciuto la sovranità popolare, e nella subordinazione delle funzioni statali a un potere costituente.

E infatti Gierke sostenne proprio questo e cioè che Locke aveva riconosciuto al popolo una sovranità suprema, normalmente latente, ma capace di sovrapporsi al potere legislativo, come diritto inalienabile.

Per Locke il problema della sovranità non si esaurisce nella identificazione dei soggetti politici nei quali si alloca il potere. Egli infatti rimarca l’intrinseca giuridicità del potere sovrano e rintraccia l’espressione più alta del potere nella capacità di determinare sanzioni contro chi attenta alla vita, alla libertà, alla proprietà.

Quindi supremazia giuridica della legge garantita secondo Locke proprio dalla separazione dei poteri.

Il pensiero di Locke fece da sostegno alla lotta della borghesia culminata nella rivoluzione del 1688.

Il pensiero costituzionalista inglese del Settecento attraversa la disputa tra fautori e detrattori dell’onnipotenza del parlamento.

Bolingbroke iscrisse il parlamento in un sistema di pesi e contrappesi riprendendo le vecchie teorie del sistema misto.

Blackstone teorizzò l’onnipotenza del parlamento trasferendo al suo interno la struttura della società inglese.

Entrambi furono profondamente condizionati dalla teoria di Montesquieu e dalla sua compiuta sistemazione della teoria della balance of powers.

Si è osservato infatti che pur avendo radici culturali diverse, i vari autori arrivano al medesimo approccio che rivede nel parlamento il prestigio che ha essendo un organo della iuris dictio. Esso dichiara le leggi in armoni con la common law e con la legittimazione derivante dal consenso dei diversi strati della società.

Il dibattito sulle conventions of costitution

Il dibattito è emblematicamente rappresentato dalle due posizioni contrapposte di Dicey e di Jenning.

Dicey → il ruolo delle conventions si restringe ad una funzione ancillare rispetto al sistema legale.

Jenning → esse concorrono liberamente con le altre fonti del diritto costituzionale, sebbene con connotati peculiari.

In entrambi i casi la loro forza e centralità è fuori discussione, tuttavia in Jenning esse hanno una naturale attitudine espansiva, per Dicey invece esse si inquadrano in un contesto di legal rules con la quale devono fare i conti.

Per Dicey la rule of law è il perno del sistema costituzionale nell’ambito della quale le convenzioni occupano un ruolo rilevantissimo, ma sussidiario.

Importante è anche la posizione di Laski il quale si è a sua volta rifatto al pensiero di Burke. Quest’ultimo ritiene che le conventions siano il vero motore della costituzione e assicurano l’associazione tra il costume costituzionale e la legge.

Laski ha sviluppato tali riflessioni ed ha affermato che le conventions dipendono dall’accordo tra i partiti sulla costituzione.

Tali riflessioni hanno condotto ad una vera e propria crisi delle law e ad una espansione delle conventions che assicurano flessibilità e stabilità del governo parlamentare. Fanno sì che gli equilibri istituzionali si modellino su quelli del sistema politico-partitico. Esse apparivano a Laski una garanzia precipua di libertà.

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