Il fenomeno dell’autonomia patrimoniale non è nuovo nel nostro ordinamento. Già in passato, infatti, certi istituti di credito potevano destinare una parte del patrimonio al compimento di un gruppo di operazioni bancarie, per cui erano costituite apposite sezioni. I fondi assegnati a tali sezioni non potevano impiegarsi per scopi diversi da quello a cui erano stati destinati. Da ciò conseguiva che solo i creditori sorti per operazioni compiute dalle sezioni potevano colpirli, non invece gli altri creditori dell’ente. Le sezioni non avevano personalità, quindi era lo stesso istituto che operava quando compiva operazioni riservate alle medesime, tuttavia esso rispondeva delle operazioni stesse anzitutto con la massa dei beni a ciò destinata e sulla medesima i creditori vantavano un diritto di prelazione.
Nello stesso patrimonio dell’ente, quindi, possono essere create masse patrimoniali distinte, appunto, autonome. La destinazione dei beni ad un determinato scopo modifica la posizione giuridica dei beni medesimi, perché questi, pur restando in proprietà del soggetto, non ne subiscono le sorti (patrimonio di destinazione).
Il codice civile vigente ha accolto il concetto predetto in forma generale per le associazioni non riconosciute, e l’ha utilizzato anche per le società alle quali ha negato la personalità giuridica. Il complesso dei beni conferiti in società in quanto destinato all’esercizio di un’attività economica gode di autonomia, e dunque tali beni, pur essendo di proprietà dei soci, costituiscono una proprietà modificata, ovvero affetta da un onere di destinazione dal quale non possono essere distolti.
Il contratto di società, in definitiva, produce:
- effetti obbligatori, in quanto viene a creare una contitolarità.
- effetti reali, in quanto impone ai beni conferiti una destinazione all’esercizio dell’attività sociale con effetti vincolanti per i terzi e per gli stessi soci.