Affatto diversa è la tesi sostenuta in uno studio di Francesco Donato Busnelli.
Con riguardo al tema analizzato, quello delle informazioni non veritiere, il punto di vista pratico e la conclusione circa la responsabilità non sembrano differire da quelli accolti in questa sede.
La diversità si mette in evidenza quando si tratta di dar forma giuridica alla soluzione del problema.
Di fronte a questa constatazione ci si può sentire prossimi a quella che Filippo Ranieri, occupandosi del tema, ha chiamato “indifferenza dogmatica”, la quale dovrebbe indicare la adiaforìa della forma giuridica quando il risultato non cambi nonostante la diversità di quest’ultima.
Non abbiamo mai creduto alla neutrità della forma giuridica.
Per il danno meramente patrimoniale, cioè non mediato dalla violazione di una situazione soggettiva, il luogo giuridico d’elezione è la responsabilità contrattuale, non quella aquiliana.
Abbiamo considerato che all’obiettivo sfumare del danno ingiusto in clausola generale nel diritto concretamente applicato, l’ingiustizia non appariva più causa, ma effetto del risarcimento.
Gli argomenti recentemente avanzati a sostegno della natura extracontrattuale della responsabilità da informazioni non veritiere ci offrono ulteriore sostegno a tale diagnosi.
Infatti dire che quando ricorre la particolare qualifica professionale dell’autore dell’informazione la colpa torna ad essere rilevante, e che a tale conseguenza “deve corrispondere una parallela selezione dei danni ingiusti […] in ragione della meritevolezza di tutela dell’interesse leso” (Francesco Donato Busnelli), anzitutto non dà ragione del perché alla qualifica professionale dovrebbe corrispondere una rilevanza della colpa che altrimenti non ci sarebbe; in secondo luogo significa rimettersi ad una tautologia nella quale la meritevolezza non sembra aggiungere nulla all’ingiustizia e quest’ultima, che non si vuole chiamare clausola generale, tale si conferma.
Né può giovare, ad uscire dalla difficoltà, l’equivoco di ritenere che l’alternativa alla clausola generale sia “la concezione tradizionale che configura l’ingiustizia del danno in termini di lesione di un diritto soggettivo (assoluto)” (Francesco Donato Busnelli); equivoco tanto più singolare quando si prenda atto che la concezione tipica dell’ingiustizia del danno non è più quella tradizionale, ma:
- mette capo ad un’elasticità evolutiva, la quale significa adeguamento automatico della regola di responsabilità al riconoscimento di nuove situazioni soggettive;
- le quali situazioni soggettive sono prive ormai delle connotazioni proprie del diritto soggettivo.
Nel momento in cui non si mette a frutto il modo in cui nel nostro sistema va intesa la tipicità, diventa inevitabile la ricaduta nella clausola generale.
Ad essa si cerca di ovviare ipotizzando una concretizzazione dell’ingiustizia alla stregua di criteri normativi.
Però la scelta di questi ultimi risulta commessa in ultima istanza all’interprete, col risultato che la clausola generale non è esorcizzata, ma solo mimetizzata.
Ove s’intenda negare un’avocazione all’interprete della valutazione di ingiustizia, che proprio l’aggiunta di tale qualifica al danno nel 2043 (Risarcimento per fatto illecito) volle evitare, solo le situazioni soggettive che come tali risultino riconosciute dall’ordinamento appaiono utilizzabili.
Con la conseguenza che la mancanza di una di esse di cui si possa assumere la lesione preclude l’ingiustizia del danno.
In questi termini, la lesione dell’affidamento incolpevole di un destinatario ragionevolmente prevedibile non è di per sé in grado di integrare la ricercata ingiustizia.
Essa si rivela arbitraria perché:
- essendo ricavata direttamente dalla legislazione di origine comunitaria e riguardando materia diversa, necessiterebbe che la si rapportasse al sistema del diritto interno ed alla materia propria;
- in ogni caso non ha nessun tratto con la questione da risolvere.
Infatti si rifiuta l’ancoraggio normativo più ovvio del criterio così reperito, che correttamene viene indicato nel 1338 (Conoscenza delle cause d’invalidità), per rifugiarsi nel 5 d.p.r. 224/1988 [Prodotto difettoso], che disciplina la responsabilità del produttore in attuazione della direttiva CEE 374/1985.
La norma alla quale viene fatto concreto riferimento, nel limitarsi a considerare difettoso il prodotto quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere, tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui […] b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere, rende palese di per sé la distanza rispetto al problema delle informazioni non veritiere che dovrebbe consentire di risolvere.
L’analogia che si intende instaurare partendo dalla norma in esame avrebbe una qualche attendibilità ove si potesse accostare l’informazione, che nella tassonomia tradizionale è un servizio, ad un prodotto.
Ma il 2 dello stesso d.p.r. 224/1988 definisce prodotto ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile.
Ora, anche a voler superare il requisito della materialità, la definizione fornita dalla legge fa emergere la necessaria oggettivazione che l’idea di prodotto essenzialmente realizza, la quale implica l’alterità di esso rispetto al soggetto da cui origina.
Questa ovvietà è confermata sul piano formale dal riconnettersi dei criteri della responsabilità direttamente al prodotto ed alle sue caratteristiche: Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto (art. 1 d.p.r. 224/1988 [Responsabilità del produttore]).
Che l’informazione sia suscettibile di diventare un prodotto, materiale od immateriale che sia, non rileva nella questione delle informazioni non veritiere, nella quale non solo non ci si riferisce ad un’informazione ormai distaccata ed oggettivata come dovrebbe essere l’informazione-prodotto, ma al contrario ad un’informazione-servizio, fornita da un soggetto particolarmente qualificato.
L’affermata analogia, pur “cautamente proposta”, si rivela insussistente.