Il problema della individuazione di una categoria di debiti, definiti do valore, contrapposta a quella di denaro, è il problema stesso della sottrazione di determinare categorie di debiti al principio nominalistico e cioè al principio dell’imputabilità dell’ammontare dei debiti nonostante le oscillazioni della moneta. In ordinamenti, come in quello tedesco, la categoria dei debiti di valore è riconosciuta, nel senso appunto di debiti la cui entità non è commisurata ad una espressione monetaria ma al valore di un bene o di una partecipazione, valore che si tratterà poi di esprimere in denaro. Il creditore, in questi tipi di debiti, non subisce le oscillazioni della moneta. Tra tali debiti si annoverano quelli di risarcimento, i debiti derivanti da arricchimento ingiustificato.

Negli ambienti di Common Law l’espressione è utilizzata per descrivere quelle situazioni nelle quali i giudici non possono fare a meno di tenere conto delle oscillazioni monetarie. Nel nostro ordinamento la categoria è massimamente di formazione giurisprudenziale, restando l’apporto della dottrina piuttosto marginale. L’alternativa dottrinale all’empirismo dei giudici è consistita nello sforzo di elaborare un criterio di individuazione della categoria che fosse contrapposto al criterio della categoria del debito di denaro.

Si è criticato l’indirizzo giurisprudenziale proprio nella misura in cui detto indirizzo ha rifiutato di indicare in positivo un criterio, essendosi limitato a contrapporre alla unitaria categoria dei debiti di denaro un insieme di debiti diversi. Si può spiegare questo indirizzo giurisprudenziale con l’imponenza della svalutazione della moneta nel periodo bellico immediatamente successivo all’ultima guerra. Preoccupazione dei giudici è stata di porre in qualche modo riparo alle conseguenze disastrose del deprezzamento della moneta nei rapporti interprivati. Motivi di congiuntura hanno impedito l’elaborazione di criteri di individuazione più affidanti di quelli rappresentati:

1) dal riferimento al criterio del debito illiquido;

2) dal riferimento al criterio dell’esistenza di un bene del quale il debito di denaro rappresenta soltanto un valore succedaneo;

3) dal riferimento, nei debiti di valore, a cosa diversa dal denaro, quale oggetto diretto ed originario della prestazione.

La dottrina dei debiti di valore intende far capo alla distinzione tra due momenti, quello della valutazione-determinazione di un certo valore astratto e quello della traduzione, in espressione monetaria, di un valore così determinato. Questa impostazione è la più interessante perché si sforza di cogliere il tipo di esigenza cui il ricorso al debito di valore vuole rispondere. Essa non condivide il facile empirismo dei giudici, tendendo a chiedersi, di fronte ad un’espressione monetaria, se essa sia indicativa di una unità di misura dei valori e\o invece di un valore o di una ragione di scambio con beni o con cose, definendosi poi tale valore nei termini di potere di acquisto di beni o cose.

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