L’idea che il codificatore del 1942 volle dare agli interpreti e che questi ultimi recepirono – fino agli anni ’60 del secolo scorso – era quella dell’esclusività della colpa come criterio di imputazione della responsabilità.

Poiché il contesto culturale era tutto impregnato del dogma della colpa, non ci si poteva limitare a prendere atto che una serie di norme non facevano riferimento a questa, ma si trattò di dare una fondazione teorica che fosse in grado di “giustificare” la responsabilità oggettiva.

Il Rischio e responsabilità oggettiva, 1961, di Pietro Trimarchi, si configura in termini di felice confluenza delle linee maturate in Europa a cominciare dall’ultimo quarto del XIX secolo e dell’apporto che la letteratura statunitense di common law successivamente era venuta dando a questo tema.

Gli artt. 2049 (Responsabilità dei padroni e dei committenti), 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose), 2051 (Danno cagionato da cose in custodia), 2052 (Danno cagionato da animali), 2053 (Rovina di edificio) e 2054 (Circolazione di veicoli), comma IV, vengono ascritti ad un sottosistema autonomo dalla colpa ed imperniato tutto sul principio del rischio.

Il rischio viene assunto come categoria riassuntiva di tutto ciò che va imputato ai costi di un’attività, e questo spiega perché nella ricostruzione proposta da Pietro Trimarchi abbia prevalente rilievo la responsabilità dell’impresa.

Emerge però l’inadeguatezza di quest’ultima ai fini di una nuova ricostruzione di quelle fattispecie di responsabilità che non si innestano in un’attività di impresa.

Ciò ha comportato anche la difficile penetrazione nella giurisprudenza della ricostruzione di Trimarchi.

Oggi che la giurisprudenza si è aperta alla responsabilità oggettiva, il riferimento al rischio come criterio di imputazione non espresso ma soggiacente alle norme che portano responsabilità senza colpa sembra essere più un altro modo di chiamare la responsabilità oggettiva che l’accoglimento della spiegazione a posteriori che la teoria di Trimarchi sembra essere rispetto alle norme del Codice civile.

In effetti queste, se si escludono il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) ed il 2054.1 (Circolazione di veicoli), sono norme che datano fin dal diritto romano e che, quando pure sono state riprese dalle codificazioni moderne, lo sono state più all’insegna della non necessarietà della colpa che per virtù propria.

Pure questo può spiegare la ritrosìa della giurisprudenza nei confronti della responsabilità oggettiva.

Alla disattenzione verso la prospettiva critica accolta dalla dottrina nei confronti del principio di colpa corrisponde un allargamento giurisprudenziale dell’area della responsabilità civile realizzato attraverso fittizi riconoscimenti di colpa nel caso concreto.

Così se nella common law inglese Rylands v. Fletcher ha continuato ad essere un precedente dal destino incerto e del quale è stato impedito che diventasse la regola centrale di un sistema di responsabilità oggettiva, all’opposizione nei confronti di quest’ultima è corrisposta una progressiva purificazione della colpa dai connotati di natura morale che poterono caratterizzarla nell’800.

Nel diritto francese, ove pure il codice sembrava avere impostato la responsabilità civile interamente sulla colpa, il riconoscimento della responsabilità oggettiva ha visto per certi àmbiti resistere la colpa: sul piano teorico mediante un’oggettivazione che ne eliminava l’alone individualistico originariamente più sensibile alla tutela della libertà dell’agente che alla difesa dell’interesse offeso; sul terreno giurisprudenziale mediante riconoscimenti della colpa in condotte soggettive del tutto irreprensibili.

Questa è parimente l’esperienza del diritto applicato italiano.

Oggettivazione della colpa e finzione della stessa hanno infine trovato sintesi nell’invenzione dovuta alla giurisprudenza germanica delle Verkehrspflichten, quella serie di doveri la cui violazione viene posta a fondamento di decisioni di responsabilità nelle quali non si fa più parola di colpa, ma in pari tempo si evita di parlare di responsabilità oggettiva.

L’800, con la sua cultura dominante di tipo individualistico, aveva dato sostegno ad un’idea che nella tradizione giuridica di derivazione romanistica aveva improntato di sé l’intera materia della responsabilità.

L’affermazione jheringhiana “senza colpa nessuna responsabilità” rappresentava l’estrema rigorizzazione di un principio sempre confortato dalla verifica della storia.

I codici di civil law ai quali abbiamo fatto riferimento, figli della cultura ottocentesca, non potevano non portarne le tracce in tema di responsabilità, e così i codici del secolo nostro.

In questo senso ha avuto grande effetto condizionante il fatto che la norma posta in apertura della disciplina della responsabilità extracontrattuale, nel Code Napoléon (art. 1382) come nel BGB (§ 823), nel Codice delle obbligazioni della Svizzera (art. 41) come nel Codice civile italiano (art. 2043) sia sempre costruita in forma generale, quasi a voler riguardare l’istituto nella sua interezza; ed improntata ad un modello soggettivo, articolato secondo le categorie del dolo e della colpa.

In realtà il riconnettere la responsabilità a “qualunque fatto doloso o colposo” non significa di per sé escluderla nelle ipotesi nelle quali non ricorra né colpa né dolo.

Non avere inteso questa ovvietà ha fatto sì che l’allargamento della risarcibilità in tutti gli ordinamenti fosse conseguito sul piano giudiziale mediante riconoscimenti di colpe inesistenti (alla maniera francese ed italiana), e sul piano teorico con l’identificazione della colpa di riflesso dal danno, verificatosi il quale a posteriori si individua un qualche dovere di condotta violato (alla maniera tedesca).

Gli sforzi dottrinali che hanno messo in luce la possibilità sistemica della responsabilità oggettiva anche all’interno dell’impianto codicistico avrebbero consentito ad una giurisprudenza di fare, ben prima di quanto è accaduto, un’opzione ermeneutica consapevole.

Se ciò non si è verificato, la ragione non può che essere di tipo culturale.

Da un lato l’implicazione reciproca di colpa e responsabilità è stata indebitamente estrapolata dal piano storico-fenomenico al quale apparteneva a quello del valore, ritenendosi impossibile fondare la responsabilità altrimenti che sulla colpa, salva una diversa indicazione del legislatore.

In secondo luogo, l’idea di responsabilità oggettiva viene formulata, da chi non la intende bene, in termini di responsabilità senza colpa.

Ciò porta seco l’erroneo convincimento che, venuta meno la colpa, non sussista alcun limite alla responsabilità: in termini analitici che, dedotta la colpa, residui una responsabilità per pura causalità.

{Così vi è chi in dottrina ancora oggi identifica tout court la responsabilità oggettiva con quella per pura causalità: ad es. Francesco Galgano}.

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