Rimane dubbia l’esposizione al pericolo in funzione di fondazione alternativa della responsabilità nelle fattispecie non improntate dalla colpa.

Anzitutto il ricorso alla pericolosità corrisponde ad una fase non matura della responsabilità oggettiva.

Nel linguaggio normativo e letterario del mondo tedesco si rinviene ancora una denominazione della responsabilità oggettiva che richiama letteralmente la creazione di pericolo (Gefährdungshaftung); ma alla funzione descrittiva non corrisponde ormai la sostanza giuridica del fenomeno, che viene connotato con le caratteristiche della responsabilità per rischio.

Infine, con riferimento al Codice civile italiano, si presenta improbabile una responsabilità oggettiva fondata sull’esposizione al pericolo, se proprio il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose: Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno), che è l’unica norma di responsabilità ad utilizzare la pericolosità in funzione di qualificazione della fattispecie, rimane ancorato al criterio della colpa.

Il 2050 è una delle norme più deludenti dell’intero Codice civile del 1942: con riguardo ad essa, infatti, l’istanza di superamento della colpa emerge con chiarezza dalla Relazione al codice (n. 795), ma viene respinta la responsabilità oggettiva, nell’illusione di poter adottare una soluzione intermedia.

Poiché tra responsabilità per colpa e responsabilità oggettiva tertium non datur, il risultato non può che essere contraddittorio: si prospetta la categoria delle attività pericolose con il solo intento di superare il muro della colpa, ma si rimane inevitabilmente entro uno schema di imputazione soggettiva proprio in quanto si rifiuta positivamente la responsabilità oggettiva.

La prova liberatoria prevista dal 2050 a favore di chi, avendo cagionato danno nell’esercizio di un’attività pericolosa, mostri di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, nell’intenzione del legislatore esclude ogni possibilità di ascrivere la norma al campo della responsabilità oggettiva.

Un’indicazione chiara in questo senso si ottiene contrastando la norma del Codice civile italiano con i § 519-520 dello statunitense Restatement of Torts 2d, relativi alle abnormally dangerous activities: per il danno generato da queste viene fatto responsabile chi le esercita, pur quando esso abbia adottato la massima diligenza per evitarlo.

Quella di attività pericolosa è una categoria equivoca perché su di essa si progetti di organizzare un intero regime di responsabilità oggettiva, od anche solo una disciplina particolare.

L’idea di prospettare la creazione di pericolo come giustificazione del risarcimento si avvale ancora del punto di vista che ha della responsabilità civile una concezione sanzionatoria di un comportamento illecito: colui che crea pericolo pone in essere una condotta antisociale.

In tal modo il pericolo creato svolge, sul terreno della responsabilità oggettiva, la stessa funzione da sempre spettante alla colpa nell’àmbito proprio della responsabilità soggettiva.

Ma scopo dell’ordinamento non è quello di ridurre il pericolo: è piuttosto il danno ciò contro cui tende la disciplina della responsabilità.

Tuttavia attraverso tale categoria inizia a filtrare nei vari ordinamenti l’idea moderna di responsabilità oggettiva: la pericolosità viene in realtà a configurarsi come una colpa in radice che non necessita della prova ulteriore di mancanza di diligenza al momento del verificarsi del fatto dannoso.

Una prova chiara di ciò è fornita dalla vicenda delle ultrahazardous activities, limitatamente alle quali sin dalla prima edizione (1939) il Restatement aveva accolto il principio di diritto adottato dalla House of Lords nel 1868 in Rylands v. Fletcher, nel quale la responsabilità viene affermata con riguardo ai danni derivanti da una cosa considerata pericolosa ora in sé, ora in conseguenza di un uso non natural, cioè debordante rispetto alla funzione sua tipica.

Il Restatement statunitense ha limitato Rylands v. Fletcher alle ultrahazardous activities, tagliando fuori l’idea di non natural use.

Gli sviluppi più recenti nel Regno Unito hanno poi ulteriormente ridotto la portata di Rylands v. Fletcher, la cui rule, inquadrata nel filtro della prevedibilità, sembra ormai addomesticata entro lo schema generale del tort of negligence.

Ritornando al 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose), esso pur costituisce una delle novità che caratterizzarono il Codice civile italiano al momento della sua entrata in vigore.

Si tratta della norma che più di ogni altra mette in luce una certa intenzione di dar corso al nuovo, diretto frutto della civiltà industriale, ed in pari tempo l’incapacità di uscire dagli schemi di una responsabilità civile che tre quarti di secolo prima Rudolf von Jhering aveva normalizzato all’insegna della colpa.

Il 2050 è risultato importante non per quel che dispone, e cioè per il modello di responsabilità che in esso è calato, ma per il semplice aver reso oggetto di disciplina le attività pericolose, quella creazione di pericolo che rappresenta il primo emergere di quella che in una fase più matura diventa la responsabilità che non si fonda più sulla colpa.

Tanto più, poi, questa norma appare di grande rilievo, quando se ne consideri la concreta applicazione: l’esito di responsabilità trova ostacoli non nella prova liberatoria che il 2050 appresta a chi abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, quanto nella ascrivibilità del fatto produttivo di danno alla tipologia delle attività pericolose.

Ché, una volta che sia accolta la qualificazione pericolosa dell’attività dalla quale il danno è derivato, il risultato di responsabilità ne consegue a mo’ di corollario.

È un esito di vera e propria responsabilità oggettiva, nella quale l’obbligazione di risarcimento del danno sembra scaturire dal semplice accertamento del nesso causale tra attività pericolosa e danno.

Nessuna prova di aver adottato le misure idonee ad evitare il danno è mai stata ritenuta dalla giurisprudenza in grado di attingere quella totalità richiesta dalla norma per scagionare l’autore dell’attività pericolosa; bisogna concluderne che solo dalla prova del caso fortuito potrebbe conseguire l’esclusione della responsabilità.

Quando il legislatore diceva nella Relazione al codice che la vera novità del Libro IV (Delle obbligazioni), Titolo IX (Dei fatti illeciti) era rappresentata dal 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) non intendeva far valere il fatto che una norma corrispondente non esisteva nel codice del 1865: alla stessa stregua avrebbe potuto allora dire del 2051 sul danno da cose, e del 2054 sul danno da circolazione di veicoli.

Il senso dell’affermazione va ritrovato nella regola di responsabilità che nel 2050 veniva adottata.

Di essa vien detto che sempre mantenendo la colpa a base della responsabilità, non solo si è posta a carico del danneggiante la prova liberatoria, ma si è ampliato il contenuto del dovere di diligenza.

Il legislatore è convinto di avere ideato la regola di responsabilità più rigorosa possibile, oltre la quale starebbe solo il principio della pura causalità, che dichiara di non avere adottato.

Il diritto applicato si è discostato notevolmente dal modello di responsabilità civile che il legislatore credette di avere costruito.

Sin dai primi anni ‘60 del secolo XX si rende sempre più evidente che una serie di regole contenute nel Titolo IX erano norme di responsabilità oggettiva.

Ciò per due motivi:

a. perché le formule linguistiche adoperate, in particolare quella del caso fortuito come limite della responsabilità, non dovevano considerarsi come meramente speculari alla mancanza di colpa;

b. perché quando la Relazione al codice afferma di non avere voluto una responsabilità per pura causalità, finisce con l’escludere solo uno dei modelli di responsabilità oggettiva.

Non esiste una causalità pura, priva della qualificazione che ad essa fornisce il criterio di imputazione: quest’ultimo può essere implicito, ma diversamente da quanto in genere si ritiene non può non esserci.

Nel momento in cui norme come gli articoli 2049 (Responsabilità dei padroni e dei committenti), 2051 (Danno cagionato da cose in custodia), 2052 (Danno cagionato da animali), 2053 (Rovina di edificio), 2054 (Circolazione di veicoli), comma IV, che il legislatore aveva concepite come ipotesi nelle quali, rifiutata la responsabilità oggettiva, restava come altro criterio di imputazione solo la colpa, sono diventate norme di responsabilità oggettiva, continuare a pensare al 2050 come regola di responsabilità per colpa diventa sistematicamente incongruo.

L’interpretazione storica e l’interpretazione sistematica cospirano in senso antagonista rispetto all’interpretazione letterale, e possono a questo punto essere dichiarate prevalenti.

Il modello adottato dal legislatore e contemplante l’esonero da responsabilità per l’autore dell’attività pericolosa che provasse di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno si è trasformato in un modello che tale autore rende responsabile anche quando provi di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.

Il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) ha suscitato interesse di recente sia nella ricognizione teorica che in quella orientata espressamente verso obiettivi di codificazione.

Anzitutto il codice civile portoghese del 1967 riproduce alla lettera il 2050.

Il 2050 ha poi costituito oggetto di particolare attenzione in altre culture giuridiche come la tedesca, la svizzera, ed ultimamente la belga.

Quando negli ordinamenti si adotta una regola generale di responsabilità oggettiva la sfera di rischio, alla quale una tale responsabilità viene commisurata, viene identificata col pericolo od il particolare pericolo, al quale viene fatto richiamo per caratterizzare quale requisito necessario e qualificante l’attività imputata.

Quando invece si scelga la via alternativa di una responsabilità oggettiva delimitata per tipi di rischio, il riferimento alla pericolosità viene meno perché superato dalla connotazione più analitica fornita dalla stessa denominazione della fonte di danno e dalla descrizione di essa.

Quest’ultima è la via tedesca e, in genere, quella degli ordinamenti che non abbiano ancora adottato una norma generale di responsabilità fondata su un criterio diverso dalla colpa.

La via per interventi settoriali caratterizza l’Unione europea, per la natura medesima delle direttive, mentre la soluzione adottata dal codice civile olandese si può dire intermedia, poiché esso, dopo aver disciplinato la responsabilità da cose e da attività secondo un modello che risulta molto vicino a quello italiano, dedica un’intera sezione al danno da prodotti.

Il legislatore italiano ha inserito la regola del 2050 tutt’intera in una disciplina di settore, quella del trattamento dei dati personali.

Con la l. 675/1996, ora rifluita nel d. lgs. 196/2003 sulla tutela della persona in materia di dati, il nostro ordinamento ha stabilito tra l’altro una responsabilità per i danni cagionati da un trattamento illecito dei dati, prevedendo, nell’originario 18, che chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile.

L’applicazione del 2050 ai danni da trattamento dei dati significa l’estensione di quest’ultima norma oltre l’àmbito ad essa ragionevolmente riferibile.

Quando la Relazione al codice metteva in evidenza la novità del 2050, faceva riferimento alla pericolosità della tecnologia che opera nel mondo materiale, non a quella che dà vita alla realtà virtuale.

Veniva generalizzata infatti la regola precedentemente contenuta nell’allora vigente t.u. sulla circolazione stradale, che sarebbe stata riprodotta nello stesso Codice civile al 2054 (Circolazione di veicoli).

Ecco perché considerare il trattamento dei dati personali alla stregua delle ferrovie o delle attività che in generale sono fonte di infortuni sul lavoro è una forzatura evitabile.

Supponendo che la responsabilità da trattamento dei dati preesistesse alla legge, da quest’ultima norma finisce con l’emergere un’interpretazione autentica del 2050, nella quale viene detto che la norma, sinora applicata solo alle attività di pericolosità materiale, va estesa anche alle attività pericolose della realtà virtuale.

È come se ad un certo momento, resosi conto dell’incremento di significato subìto dal Libro IV (Delle obbligazioni), Titolo IX (Dei fatti illeciti) ad opera della giurisprudenza, il legislatore avesse deciso di rompere gli indugi per riguadagnare l’iniziativa.

Però l’ha fatto mimando la giurisprudenza, cioè attraverso forme che quest’ultima si è vista costretta ad adottare proprio per il mancato intervento legislativo, e perciò interpretando male il proprio ruolo.

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