Il can. 1311 afferma che la Chiesa ha il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che hanno commesso delitti; dunque la Chiesa ha un proprio diritto penale al quale è dedicato il libro sesto del codice intitolato “le sanzioni nella Chiesa”. Questa disposizione ha una ragione verso l’esterno, cioè a fronte della pretesa dello Stato moderno di avere in esclusiva la titolarità della funzione penale, la Chiesa rivendica un’azione coercitiva che esplicita nelle forme del diritto penale. Diritto che è nativo della Chiesa, originario, scaturente dalla sua stessa natura, e proprio, non derivato da altre autorità.
L’ordinamento canonico è originario e sovrano, non trae esistenza e legittimazione da altro ordinamento, perciò ha in sé anche l’idoneità e la legittimazione a ricorrere alla coercizione. Il can. 1311 vuole sottolineare l’indipendenza della potestà coattiva della Chiesa nei confronti di ogni autorità umana, che non può interdirne l’esercizio né porsi quale garante dei diritti della persona all’interno della comunità ecclesiastica e giudice cui ricorrere nel caso di una loro pretesa lesione (appello per abuso).
Esiste poi una ragione interna, diretta a sottolineare che nella misura in cui il popolo di Dio si pone come società umana giuridicamente organizzata non può fare a meno di un diritto penale. Si è dubitato però della necessità di un diritto penale canonico, poiché sarebbe in contraddizione con la Chiesa come comunità volontaria e la costrizione penale contrasterebbe con la libertà religiosa e di coscienza.
Secondo altri invece lo strumento penalistico non contrasta con lo spirito del diritto canonico. In realtà la Chiesa ha sempre esercitato questa funzione punitiva, nella forma più severa con la separazione dalla comunità (scomunica) di chi si è reso responsabile di fatti gravi. Sin dai testi del Nuovo Testamento troviamo misure con finalità di protezione della comunità ecclesiale e di emenda del caduto in una colpa particolarmente grave; ad esempio troviamo il presupposto del fatto grave e notorio, la contumacia, le previe ammonizioni, la sentenza, la finalità medicinale, l’esclusione dalla comunità, il divieto di rapporti con il reo, la necessità del pentimento.
Si deve considerare che la misericordia non può prescindere dal perseguimento della giustizia, o diventerebbe oggettiva complice del male e quindi cattiva pedagoga nel far discernere le azioni virtuose da quelle malvage. Dunque la Chiesa è legittimata a reagire anche con sanzioni penali e il carattere volontario e non necessario della società ecclesiastica rafforza la ragione di un diritto penale, al quale si assoggetta con libertà chi liberamente è entrato a far parte della Chiesa.
Infatti proprio il carattere di società volontaria dà ragione di una peculiarità del diritto penale canonico, che poggia sul principio di legalità (“nullum crimen sine lege”) giacché il can. 221 afferma che i fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche se non a norma di legge. Questo principio è temperato dal can. 1399 secondo cui la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con una giusta pena solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali. Secondo il diritto canonico può emanare leggi penali chiunque abbia potestà legislativa (can. 135): quindi sia il legislatore universale sia i legislatori particolari, i quali possono anche statuire sanzioni per la violazione di norme poste da altro legislatore (cann. 1315 – 1318).
Inoltre chiunque abbia potestà legislativa può emanare pure precetti penali, cioè comandi diretti non alla generalità ma a soggetti determinati (can. 49 e 1319). Per le leggi penali vige il principio della territorialità (can. 13) a meno che non si tratti di leggi personali, destinate ad una particolare categoria di fedeli; sono irretroattive e nel caso di successioni di leggi nel tempo si applica la legge più favorevole al reo. Il diritto canonico pone divieto di interpretazione estensiva della legge penale (can. 18) ed esclude il ricorso all’analogia in materia penale (can. 19).
Viceversa non esclude che la consuetudine possa abrogare una norma penale, introdurre esimenti, produrre un interpretazione secundum legem; mentre è da escludere che con una consuetudine possano essere introdotte nuove fattispecie criminose. Infatti il can. 1399 legittima il superiore ecclesiastico ad irrogare una pena quand’anche questa non sia stata prevista ma sia stata violata una legge.