L’individuazione del momento in cui il procedimento ha inizio è importante giacchè soltanto con riferimento ad esso è possibile stabilire il termine entro il quale il procedimento stesso deve essere concluso. L’art. 2 della l. 241/90 stabilisce che tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte.

Nel caso in cui il procedimento inizi a richiesta o su proposta di un soggetto pubblico, il termine decorre dalla data di ricevimento della richiesta o della proposta, purché, nel caso di richiesta, essa sia completa e regolare. Ove la domanda debba essere corredata da documentazione il termine comincia a decorrere dal momento in cui essa risulta completa.

L’art. 2, c. 2, l. 241/90 afferma che entro il termine stabilito il procedimento deve essere concluso. In senso proprio il procedimento si conclude con l’emanazione dell’ultimo atto della serie procedimentale , che non necessariamente coincide con il provvedimento: es. atti di controllo che segue all’emanazione del provvedimento.

Nel 1 co dell’art. 2 l. 241/90 il legislatore chiarisce che la p.a. ha il dovere di concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”: di conseguenza il termine si intende rispettato quando l’amministrazione entro novanta giorni emani il provvedimento finale.

In realtà con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte l’art. 20 ammette la possibilità che il procedimento sia definito mediante silenzio- assenso. Ciò significa che all’inerzia è collegata la produzione degli effetti corrispondenti a quelli del provvedimento richiesto dalla parte. Il silenzio-assenso può essere impedito emanando un provvedimento di diniego. Da tale disciplina si ricava che l’amministrazione ha il dovere di provvedere in modo espresso soltanto ove intenda rifiutare il provvedimento richiesto dal privato, potendo altrimenti restare inerte.

Posto che l’art. 20 prevede un ulteriore strumento per evitare il formarsi del silenzio può osservarsi che l’amministrazione ha il dovere di attivarsi qualora ritenga che la situazione che si realizzerebbe a seguito della formazione del silenzio-assenso risulti in contrasto con l’interesse pubblico.

L’art. 20 introduce un’importante serie di eccezioni a questa regola delimitando il vero ambito in ordine al quale l’amministrazione deve agire con provvedimento espresso.( la norma richiama gli atti e i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale ecc.).

In tali ipotesi a fronte dell’inutile decorso del termine senza che l’amministrazione abbia emanato il provvedimento, si forma il c.d. silenzio inadempimento, che non produce effetti equipollenti a quelli di un provvedimento.

Il cittadino ha a disposizione lo specifico strumento del ricorso avverso il silenzio, preordinato ad ottenere comunque un provvedimento espresso anche attraverso la nomina giudiziale di un commisario ad acta; il giudice poi può pronunciarsi sulla fondatezza della domanda. L’amministrazione non decade dal potere di agire ma il ritardo può causare una responsabilità a suo carico per lesione di interessi meritevoli di tutela. Ciò è confermato dall’art. 2 ai sensi del quale il ricorso avverso il silenzio può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine procedimentale.

Talvolta l’ordinamento attribuisce poteri sostitutivi in capo alle amministrazioni diverse da quelle competenti a provvedere che siano rimaste inerti.

Il ritardo nell’emanazione dell’atto amministrativo può altresì integrare un’ipotesi di illecito disciplinare a carico del dipendente. A ciò si aggiunga che l’ordinamento prevede altresì la responsabilità civile a carico dell’agente: ai sensi dell’art. 25 t.u. impiegati civili dello Stato d.p.r. 3/57 , infatti il privato può chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’omissione o al ritardo nel compimento di atti o di operazioni cui l’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento. A tal fine l’interessato quando siano trascorsi 60 gg dalla data di presentazione dell’istanza deve notificare una diffida all’amministrazione e all’impiegato, a mezzo di ufficiale giudiziario; decorsi inutilmente 30 gg dalla diffida ( che oggi non è più richiesta per la formazione del silenzio-inadempimento) egli può proporre l’azione volta ad ottenere il risarcimento.

Tale procedura è prevista dalla legge anche nel caso di omissione o ritardo di atti endoprocedimentale da compiersi d’ufficio. In tali ipotesi la diffida è inefficace se non siano trascorsi 60 gg dal compimento dell’atto o della operazione che deve precedere l’atto o l’operazione oggetto di diffida.

L’art. 328 c.p. stabilisce, inoltre, che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio , il quale, entro 30 gg. dalla richiesta redatta in forma scritta da chi vi abbia interesse , non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno ……”. Al 1 co. la norma in questione sanziona anche il rifiuto quando esso attenga ad un atto identificato in relazione ad una delle finalità specificate dalla norma stessa ; si tratta delle ipotesi in cui l’atto relativo alla cura degli interessi particolarmente importanti , deve essere compiuto su semplice richiesta di un terzo o su iniziativa del funzionario.

La legge non si preoccupa di coordinare la norma penale con l’art. 2 della l. 241/90 sicchè pur in presenza di un termine procedimentale superiore ai 30 gg., il reato si consuma ove il pubblico funzionario entro 30 gg. non provveda o non esponga le ragioni del ritardo.

Alla tesi di chi ritiene che, a seguito dell’istanza, non occorrano ulteriori diffide al fine di far constatare l’inadempimento, nè sia necessaria la notifica a mezzo di ufficiale giudiziario dell’istanza stessa, si oppone infatti l’opinione secondo la quale il reato si consuma se, una volta scaduto fissato dalla legge per provvedere , l’amministrazione rimane inerte per 30 gg. successivi ad ulteriore diffida notificata da ufficiale giudiziario.

Affinchè si integri il reato è sufficiente l’inerzia nel compiere un atto il quale non necessariamente è il provvedimento finale , sicchè ad. es. potrebbe integrare l’ipotesi di reato anche il comportamento inerte del responsabile del procedimento che ai sensi dell’art. 6 l. 241/90 non provveda a compiere gli atti.

In generale il termine è di 90 gg. ma ai sensi dell’art. 2 per le amministrazioni statali può essere diversamente disposto con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell’art. 17, c. 1 l. 400/88, su proposta del ministro competente di concerto con il ministro per la funzione pubblica. Per quanto riguarda gli enti pubblici nazionali essi stabiliscono secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza.

Soltanto nel caso in cui essi non provvedano o la legge non indichi espressamente un termine diverso, dunque, si applica il termine di 90 gg. l’art. 2 prevede alcuni criteri per l’individuazione dei termini.

I termini possono essere interrotti o sospesi. L’art. 10 bis., con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte, stabilisce che, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, l’amministrazione comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda: questa comunicazione interrompe i termini che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di 10 gg. dal ricevimento della comunicazione attribuito agli istanti per presentare per iscritto le loro osservazioni , eventualmente corredate da documenti.

Con riferimento alla sospensione l’art. 2 , c. 4 dispone che, nei casi in cui leggi o regolamenti prevedono per l’adozione di un provvedimento l’acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini sono sospesi fino all’acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo comunque non superiore a novanta giorni. I termini possono essere altresì sospesi, per una sola volta, per l’acquisizione di informazioni e certificazioni relative a fatti, stati e qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.

La legittimità di pareri o istanze deve essere accertata avendo riguardo alle prescrizioni in vigore al momento in cui gli stessi sono stati rispettivamente resi o presentati , anche se successivamente la disciplina è mutata.

Il principio vale anche per il provvedimento finale sicchè, nell’ipotesi in cui la sua emanazione richieda , ai sensi della normativa sopravvenuta, l’esistenza di atti endoprocedimentali non previsti dalla legge precedente e non sussistenti, l’amministrazione dovrà rifiutarsi di emanarlo. Al momento dell’emanazione del provvedimento debbono dunque sussistere tutti gli atti previsti dalla normativa vigente: nel silenzio della legge, ciò non impedisce la salvezza degli atti endoprocedimentali già emanati , anche se è mutata la disciplina purchè la fase in cui essi si collocano non sia totalmente incompatibile con la nuova normativa.

 

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