L’attività amministrativa contempla continuamente il compimento di scelte tra più soluzioni compatibili con il dato normativo.

Così, in presenza di un edificio pericolante occorre: interpretare le norme, per esempio per individuare l’ufficio competente; valutare il rischio di crollo; individuare una misura, per esempio scegliendo tra demolizione e restauro; decidere se concedere un finanziamento per l’eventuale restauro; adottare eventuali misure temporanee, come la chiusura al traffico della strada adiacente; e così via.

Si tratta, evidentemente, di scelte molto eterogenee: a volte si tratta di interpretare le norme, operazione spesso non facile; a volte di accertare o apprezzare situazioni di fatto, eventualmente applicando conoscenze specialistiche, le quali possono non condurre a conclusioni certe; a volte di individuare il miglior modo per assicurare il soddisfacimento dell’interesse pubblico o, più esattamente, il bilanciamento dei diversi interessi presi in considerazione dalle norme.

In comune c’è il fatto che la decisione adottata è spesso opinabile, essendo difficile o impossibile distinguere la soluzione giusta da quelle sbagliate. Il problema della discrezionalità amministrativa presenta diversi aspetti: se emanare un certo provvedimento (discrezionalità nell’an), quando emanarlo (nel quando), con quale contenuto (nel quid), come esternarlo e quali elementi accidentali inserirvi (nel quomodo).

Naturalmente, questi diversi tipi di valutazione amministrativa non sono sempre presenti: la discrezionalità nell’an, per esempio, spesso manca, perché, in presenza dei presupposti di legge, l’emanazione del provvedimento è obbligata (non si può rifiutare il rilascio di un diploma universitario a chi abbia sostenuto tutti gli esami e pagato tutte le tasse; accertato un illecito, non si può fare a meno di irrogare la sanzione). Anche la discrezionalità nel quando è di regola molto limitata per la previsione di un termine del procedimento. Le altre due forme di discrezionalità hanno intensità molto variabile.

 

Discrezionalità amministrativa e controllo giurisdizionale

Nel XIX secolo, infatti, l’espressione ”atto discrezionale” indicava gli atti dell’amministrazione sottratti al sindacato giurisdizionale, in ossequio al principio della separazione dei poteri. Successivamente, questo principio è stato bilanciato dal principio di legalità e dall’esigenza di tutela dei diritti dei cittadini.

Da un lato, alcune scelte sono rimesse dalla legge all’amministrazione; dall’altro, occorre un controllo sul corretto perseguimento dell’interesse pubblico da parte di essa. La nozione di discrezionalità esprime una situazione intermedia tra la libertà e il vincolo: all’amministrazione spettano scelte, ma esse devono essere esercitate in modo da realizzare l’interesse pubblico.

Ciò nonostante, l’attività discrezionale viene tradizionalmente contrapposta all’attività vincolata, interamente regolata dalle norme, con esclusione di ogni possibilità di scelta per l’amministrazione. Gli atti totalmente vincolati, in realtà, sono pochi: per esempio, alcune autorizzazioni che devono essere rilasciate sulla base dell’accertamento di presupposti certi, per le quali vi è solo una limitata discrezionalità nel quando. Si potrebbe anche dubitare che simili atti costituiscano esercizio di poteri, perché la componente dell’obbligo è decisamente prevalente su quella del potere.

 

La discrezionalità tecnica

Se un provvedimento favorevole è vincolato, il privato ha il diritto di ottenerlo e, quindi, può rivolgersi al giudice ordinario contro il mancato rilascio. Stabilire se un edificio è di interesse storico e artistico, così come determinare se una sostanza è pericolosa, se un farmaco è sicuro ed efficace, se una miniera è coltivabile, se un messaggio pubblicitario è ingannevole, se uno studente è preparato, sono scelte relative all’applicazione di conoscenze specialistiche, diverse, almeno concettualmente, da quelle relative a interessi.

Le scelte basate su conoscenze specialistiche sono definite dall’art. 17, legge n. 241/1990, valutazioni tecniche, che si distinguono dagli accertamenti tecnici proprio per l’opinabilità della scelta, per il margine di incertezza che essa lascia, per la variabilità del risultato in relazione al metodo adottato. L’espressione tradizionale, invece, è quella di discrezionalità tecnica, in evidente simmetria con quella amministrativa.

Per un verso, l’evoluzione del processo amministrativo (con l’ampliamento dei mezzi istruttori, compresa la consulenza tecnica d’ufficio) induce i giudici a sindacare le valutazioni tecniche. Per un altro, essi tendono ad arrestarsi di fronte a valutazioni particolarmente complesse (per esempio, quelle operate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato).

 

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