Premessa

Rispetto alla giurisdizione ordinaria, nel processo amministrativo, nella sua configurazione originaria, erano ammesse solo le azioni (e, quindi, le sentenze) costitutive (in particolare: sentenze di annullamento dell’ atto impugnato), mentre erano escluse le azioni di accertamento e quelle di condanna.

Invero, l’ art. 45 r.d. 1054/24 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato) stabiliva che il Consiglio, qualora avesse accolto il ricorso, avrebbe dovuto annullare l’ atto o il provvedimento impugnato [ne conseguiva, quindi, che il giudice amministrativo non avrebbe potuto né condannare l’ amministrazione a fare o non fare o a dare alcunché, né avrebbe potuto emettere una sentenza di accertamento (di illegittimità dell’ atto o della pretesa del ricorrente ovvero dell’ obbligo dell’ amministrazione); difatti, l’ unico accertamento che era consentito al giudice amministrativo era l’ accertamento della fondatezza dei motivi di ricorso].

Questo quadro, però, non appariva in sintonia con gli artt. 29 e 30 dello stesso regio decreto, attraverso i quali era stata prevista e disciplinata la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato in una serie di materie, la più importante delle quali riguardava il rapporto di pubblico impiego: in questa materia, parte della dottrina riteneva che, qualora l’ impiegato pubblico avesse chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento di un trattamento economico superiore o il pagamento delle ferie, la sentenza costitutiva (cioè, l’ annullamento dell’ atto impugnato) non si presentava come uno strumento adeguato. Occorreva, pertanto, in questi casi, una sentenza di accertamento (ad es., accertamento del diritto ad una differenza retributiva) o ancor meglio una sentenza di condanna.

Di qui, l’ emanazione, da parte del Consiglio di Stato (nelle materie di giurisdizione esclusiva), di sentenze di condanna (a partire dagli anni ’30 del 1900); quest’ orientamento, però, incontrò l’ opposizione della Corte di Cassazione. Fu, pertanto, soltanto con la legge del 1971 (istitutiva dei Tar) che venne chiarito, all’ art. 26, co. 3, che il giudice amministrativo, nelle materie relative a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito, avrebbe potuto condannare l’ amministrazione al pagamento delle somme di cui fosse risultata debitrice. Come abbiamo visto, la condanna pecuniaria, ex art. 26 della legge del ‘71, riguardava solo la giurisdizione esclusiva; sarà soltanto con l’ art. 7 L. 205/00 che il Tar conoscerà di tutte le questioni relative all’ eventuale risarcimento del danno, nell’ ambito della sua giurisdizione (e, quindi, non solo nell’ ambito della sua giurisdizione esclusiva, ma anche in quella di legittimità).

Questo mutamento del quadro normativo è stato, da ultimo, preso in considerazione dal d.lgs. 104/10, che infatti ha previsto la possibilità di esperire, dinanzi al giudice amministrativo, tre specie di azioni: azioni di annullamento, azioni di condanna e azioni di accertamento.

L’ azione di annullamento è riproposta nella sua formulazione originaria: per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere (il ricorso, in questo caso, va proposto nel termine di decadenza di 60 gg.).

Con l’ azione di condanna, invece, il ricorrente chiede il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria (in entrambi i casi, egli agisce a tutela di un interesse legittimo). È bene precisare, però, che nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il ricorrente può anche chiedere il risarcimento del danno da lesioni di diritti soggettivi.

Va chiarito, infine, che il ricorrente può, in alternativa al risarcimento del danno, richiedere anche la reintegrazione in forma specifica [sempre che, però, la stessa non risulti troppo onerosa: è questo, ad es., il caso del proprietario di un palazzo che sia stato illegittimamente abbattuto dall’ amministrazione comunale; in tale ipotesi, la sua richiesta di ricostruzione dell’ edificio a carico del comune (reintegrazione in forma specifica), può essere convertita dal giudice in domanda di risarcimento del danno].

I rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna

Il d.lgs. 104/10 ha definito i rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna, chiudendo una disputa che aveva visto contrapposti per anni il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione. Il contrasto si palesava nei seguenti termini: premesso che il danno cagionato al privato dall’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa presuppone l’ esistenza di un provvedimento illegittimo, che è suscettibile di impugnazione con l’ azione di annullamento, il Consiglio di Stato ha sostenuto (per anni) che la domanda di risarcimento del danno (azione di condanna) dovesse essere preceduta da una domanda di annullamento (cd. pregiudizialità dell’ azione di annullamento rispetto all’ azione di condanna); l’ interessato, pertanto, qualora avesse voluto ottenere il risarcimento danni avrebbe dovuto prima agire (nel termine di decadenza di 60 gg.) con la domanda di annullamento.

Della tesi della cd. pregiudizialità amministrativa, però, le Sezioni unite della Cassazione hanno fatto giustizia nel 2006 con ordinanza n. 13659: il Supremo Collegio, infatti, ha innanzitutto affermato l’ autonomia delle due azioni (sicché, oggi, l’ azione di condanna può essere proposta in via autonoma); ed ha, poi, precisato che il giudice amministrativo, rifiutando di esaminare nel merito la domanda di risarcimento del danno (perché non è stata richiesta la previa rimozione dell’ atto e dei suoi effetti nel termine di 60 gg.), incorre in un indebito rifiuto di esercitare la giurisdizione.

La nuova normativa (d.lgs. 104/10) si è, così, adeguata all’ orientamento della Cassazione, con qualche correttivo: è stato stabilito, infatti, che l’ azione di condanna (che è legata all’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o al mancato esercizio di quella obbligatoria) può essere esercitata anche in via autonoma (a prescindere, quindi, dall’ azione di annullamento); tale azione di condanna, tuttavia, è sottoposta ad un termine di decadenza di 120 gg., che cominciano a decorrere dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento.

Nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto, nonché il comportamento complessivo delle parti [egli, in ogni caso, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare attraverso l’ esperimento degli strumenti di tutela giurisdizionale previsti: l’ esempio che di solito viene proposto è quello del proprietario di una costruzione destinataria di un ordine di demolizione; alla sua domanda di risarcimento (per il danno cagionato dalla demolizione) proposta nel termine di 120 gg. dalla notifica del provvedimento, ad esecuzione avvenuta, potrebbe essere opposto che se egli si fosse attivato tempestivamente con l’ azione di annullamento e con una domanda di sospensione del provvedimento impugnato, e questa fosse stata accolta, la costruzione sarebbe ancora in piedi].

Le azioni di accertamento

Nel processo amministrativo possono essere esperite anche azioni di accertamento (così come stabilito dall’ art. 31 c.p.a.).

Si tratta, innanzitutto, dell’ azione avverso il silenzio, ossia dell’ azione con la quale, chi vi ha interesse, può chiedere l’ accertamento dell’ obbligo dell’ amministrazione di provvedere, una volta che siano decorsi i termini per la conclusione del procedimento. Tale azione può essere proposta sino ad 1 anno dalla scadenza dei termini; è bene precisare, tuttavia, qualora l’ interessato decada dall’ azione (per il decorso del termine di 1 anno), può rivolgersi nuovamente all’ amministrazione e far scattare, così, i nuovi termini (il termine per la conclusione del procedimento e, in caso di ulteriore inerzia, il termine per l’ esercizio dell’ azione).

Una volta proposta l’ azione di accertamento, il giudice è chiamato ad accertare:

• che sia scaduto il termine per provvedere;

• che l’ amministrazione abbia l’ obbligo di provvedere;

• che l’ amministrazione abbia omesso di provvedere.

Va sottolineato, infine, che qualora si tratti di attività vincolata, il giudice può anche accertare che l’ interessato ha diritto al rilascio del provvedimento richiesto.

Una seconda azione di accertamento è prevista per far valere le nullità previste dalla legge: in questo caso, è necessario sottolineare che, dal momento che l’ atto nullo non produce effetti, il giudice è chiamato semplicemente ad accertare che la situazione giuridica (che l’ atto nullo pretendeva di modificare) è rimasta immutata. È il caso di chiarire, al riguardo, che la domanda volta all’ accertamento della nullità dell’ atto amministrativo deve essere proposta entro il termine di decadenza di 180 gg.: ciò, di conseguenza, comporta l’ inattaccabilità dell’ atto, una volta decorso il termine su indicato (in tal modo, l’ atto nullo produrrebbe i suoi effetti e verrebbe, quindi, ad identificarsi con l’ atto annullabile).

È necessario sottolineare, infine, che accanto alle azioni di accertamento previste e disciplinate dall’ art. 31 c.p.a., nel processo amministrativo sono ammesse azioni di accertamento anche nella giurisdizione esclusiva: la controversia, in questi casi, cade su diritti soggettivi (si pensi, ad es., al caso in cui l’ interessato chieda al giudice l’ accertamento del persistente vigore di un contratto con la P.A., che questa, invece, sostiene essere scaduto).

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