La concessione utilitaristica fin qui analizzata presenta una visione semplicistica dell’uomo, che viene ridotto a fascio di fenomeni, di desideri e di preferenze. Inoltre si ritiene che l’intelligenza si manifesti solo nella sua dimensione calcolante e riduttivamente legata all’accertamento della verificabilità scientifica. Si dimentica però che l’uomo non è solo brama calcolante ma anche intelligenza bramosa che lo fa cadere nell’errore razionalistico.

La radicale dimensione individualistica delle tesi fin qui viste pregiudica la possibilità di fondare il rapporto intersoggettivo.

L’autonomia che gli utilitaristi invocano come principio esprime la pretesa del soggetto di auto-governarsi seguendo le proprie preferenze.

La conseguenza di ciò ricade sulle scelte bioetiche portando ad una concezione riduttiva del vivere umano e ad un dialogo solo apparente che non produce “una soluzione pacifica delle controversie”, ma un “congelamento” della situazione conflittuale a favore del più forte.

Per quanto riguarda il concetto di qualità della vita, concetto centrale nelle tesi pro-choice ed invocato in opposizione al concetto di sacralità della vita, va ricordato quanto affermato da Pessina: la sacralità della vita ha ragione di esistere come contraddittoria alla qualità della vita solo se quest’ultima espressione viene intesa come radicale negazione di qualsiasi significato e valore dell’esistenza umana che non sia equiparabile alle condizioni di vita di un adulto sano e consapevole. In effetti in base al razionalismo-utilitaristico, che dimentica il mistero della vita, si giunge a “discriminare fra una vita che ha senso perché è utile e una che non ha senso perché improduttiva; la vita non accolta come mistero viene fatta oggetto di analisi rigidamente oggettive e quindi viene lasciata alla capacità dell’uomo la determinazione del senso e del nonsenso. Pericolo di ciò è che si arrivi a codificare un nuovo concetto di normalità sociale fortemente discriminante.

La discriminazione è inaccettabile dal punto di vista etico poiché è rivolta nei confronti di chi non può far sentire il suo grido di dolore. Da ciò si dubita di un autonomia che si traduce nella sopraffazione del più debole.

Ad analogo esito portano le tesi di Engelhardt, apparentemente miti e tolleranti. L’utonomia individuale troverebbe qui la sua regola nell’incontro con l’altro. Ma va sottoineato la peculiarità dell’incontro fra quelli che l’autore chiama stranieri morali.

La Palazzani definisce questo incontro come tolleranza simmetrica delle rispettive autonomie, accettazione neutrale, sopportazione indifferente della volontà dell’altro. Si tratta ciò di un relativismo scettico che solo apparentemente rispetta le differenze e che sotto la parvenza di mitezza nasconde una volontà di sopraffazione.

Ma per contrattare e per dialogare è necessario essere responsabili, ma questo possibile solo laddove vi sia un soggetto pronto a rispondere, un soggetto a cui rispondere e vi sia qualcosa in nome della quale valutare la risposta stessa. Nel pensiero postmoderno manca il qaulcosa con cui vagliare le risposte. E così non si può rispondere ma solo affermare la propria volotà, e farlo fino a che se ne ha la forza. Chi non è in grado di farsi valere non può essere considerato neppure uno straniero morale: èun prodotto commercializzabile.

Cioè un argomentare basato sul criterio di autonomia utilitaristica non pare idoneo a tutelare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nelle scelte tragiche: sicuramente non tutela chi non può partecipare alla contrattazione e neppure colui che dopo la discussione si trova in minoranza.

La regola di maggioranza in questo caso legittima la forza. Così il fatto che un opinione trionfi nulal dice sulla sua validità…e in realtà nulla ci potrà mai dire perché non c’è nell’ottica post moderna un criterio alla ui luce valutarla.

Quindi il concetto di autonomia in ambito utilitaristico fonda un criterio di soluzione dei problemi che si prospettano in ambito bioetico insufficiente poiché implica un’indebita distinzione fra individui degni o meno di protezione e non tutela i più deboli, coloro che non possono proporre o imporre la loro “estraneità morale”.

Però va anche detto che una tale autonomia potrebbe apparire accettabile quando fosse riferita alle scelte che si presume riguardino solo il diretto interessato. Mentre sarebbe inaccettabile qualora si traduca nella pretesa dell’individuo autonomo di scegliere per l’altro o di disporre di embrioni e feti come di suoi semplici accessori, di meri ambiti di proprietà, al contrario potrebbe apparire plausibile quando risponde ad una richiesta dell’individuo adulto, capace d’intendere e di volere, di disporre della propria vita, di esercitare l’autonomia su se stesso. È quest’ultima la questione dell’eutanasia: la pretesa che spetti al soggetto interessato esercitare la sua autonomia per decidere di interrompere la propria vita laddove essa paia atta a produrre solo sofferenze.

Da questo punto di vista da ricordare un saggio di D’Arcais,intitolato “ il dono della vita e la decisione sulla morte”, in cui si argomenta a favore della piena liceità dell’eutanasia attiva proprio richiamando lo slogan della bioetica pro-life: la vita è un dono.

Chi la ritiene così, dice questo autore, deve riconoscere come essa sia a disposizione del titolare del bene stesso, di colui che l’ha ricevuta in dono. Il beneficiato ne può quindi disporre per sottrarsi alle sofferenze. Per questo pensatore nessun soggetto e nessuna istituzione ha il diritto di “torturare” un soggetto sensibile imponendogli una dolorosa esistenza o agonia senza speranza, laddove si intenda la vita cm bene donato.

Si tratta di una tesi interessante che se condivisibile potrebbe essere usata per dimostrare l’infondatezza di quanto sostenuto dai sostenitori del “pro-life”.

Vediamo che a detta di D’Arcais la vita umana possiede dignità non per il suo carattere di vita ma per la sua qualità umana della stessa. Anche il più fanatico ecologista che difende i diritti degli animali dovrà riconoscere che la più grande invenzione della medicina in difesa della vita umana è l’antibiotico, che è un farmaco che come dice il nome è distruzione di vita ma non di quella umana! È quindi il carattere umano della vita che la rende sacra!

Essa per tanto sarebbe, secondo questa tesi, indisponibile per tutti tranne che per chi ne è titolare.

Per D’Arcais il valore della vita dipende dal fatto che essa “appartiene” ad un soggetto degno di un tale nome, egli l’ha “ricevuta in dono” e quindi ne può disporre.

La tesi appena vista è sicuramente suggestiva ma non convince in relazione alla pretesa di intendere il rapporto dell’uomo con la sua vita come quello di un possesso.

Infatti il reclamato diritto sulla vita porta alla dissoluzione della pretesa di autonomia su cui si fonda, poiché se di diritto sulla vita si tratta, sottomesso alla volontà e alle sue decisioni, allora non sorprende che in caso di conflitto sia la volontà più forte che ne disporrà

Si potrebbe rispondere che chi afferma la piena disponibilità sulla vita riserva questa piena disponibilità non a tutti ma solo a chi ne è titolare. Gli altri non ne possono disporre.

Ma chi è titolare? Il soggetto malato o quello in piena salute? E laddove il soggetto malato non sia in grado di manifestare la sua volontà chi lo farà per lui?

Tali dubbi fanno quindi guardare con sospetto chi sostiene fermamente il pieno diritto ad esercitare e esigere l’eutanasia attiva!

Al riguardo possiamo ricordare le parole di Vigna: una persona umana non può erigersi a padrona della vita, tantomeno della propria. Al contrario si erige a padrone della vita chi decide di restare in vita o di tenere qualcuno in vita, a patto che la vita abbia una certa qualità o comunque chi decide della vita come cosa sua e non come un compito a tutti assegnato.

Da sottolineare inoltre che se la vita è un dono questo non significa che noi ne possiamo disporre in modo più o meno arbitrario. Si tratta di una scelta possibile solo se fossimo soggetti senza relazioni, connessioni, individualisti e dominati dalla logica edonistica.

La vita è si un dono ma del quale siamo chiamati a rispondere se non altro ai nostri simili, poiché noi siamo insieme agli altri e per gli altri, costitutivamente!

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