La cura profusa dai commissari imperiali nell’approntare una raccolta ufficiale di leges, la collocazione del tema religioso in un segmento ampio ma specifico di tale codificazione, la definitiva soluzione dei rapporti fra la maiestas dei prìncipi e la forte presenza sociale della chiesa non potevano che connotare sensibilmente la percezione del Codex come una novità assoluta. Non solo al suo interno si regolamentavano i vari aspetti di una società radicalmente differenziata, ma si giungeva anche a garantire in modo efficace alcune rigide posizioni di privilegio.

In ambito puramente tecnico si stabiliva un elenco autoritativo di fonti del diritto, creando in tal modo una sorta di vera e propria gerarchia fra le diverse fonti giuridiche. Ben oltre questi effetti ciò che connotava particolarmente il Codice era la cura mostrata dal codificatore nei riguardi dei diversi aspetti della materia religiosa.

Del resto non avrebbe potuto che essere così nel regnum di Bisanzio che, ancora profondamente intriso di paganesimo in età costantiniana, aveva visto nascere la propria capitale già come civitas quasi del tutto christiana; aveva registrato il sorgere ed il consolidarsi di una grande chiesa locale, fino alla creazione di un potente patriarcato politicamente onnipresente; così pure aveva assistito al costituirsi delle fazioni popolari legate all’ippodromo cittadino (i dèmoi) frequentemente schierate in politica, manovrabili ad arte proprio sulla base della collocazione religiosa dei suoi membri. In altri termini: l’ambiente cittadino nel quale il Codex era stato ideato e poi realizzato dagli uomini di governo non avrebbe potuto che costituire il sostrato intimamente religioso in senso cattolico. In tale contesto il cristianesimo urbano era diventato il supporto di ogni genere di cultura, prima fra tutte quella del potere.

Negli ultimi venti anni del regno di Teodosio II gli eventi storicamente più importanti appartengono alla storia della chiesa (così Stein-Palanque). Sia il Codice Teodosiano, sia la successiva legislazione prodotta nella cancelleria costantinopolitana non avrebbero potuto prescindere dalla premente realtà prospettata dal mondo cristiano. Quindi gli anni orientali della metà del sec. V sembrerebbero essere stati un tempo ed un luogo in cui ciascun aspetto del reale andava rapidamente avviandosi ad essere culturalmente mi­surato e formalmente rappresentato col metro della religione cristiana.

Inoltre solo i testi ‘religiosi’ del Teodosiano, e massime quelli del libro XVI, hanno incontrato le più ampie cure della critica storica in ambiente romanistico; altrettanto, non è avvenuto per certo altro materiale teodosiano postcodificatorio, né per alcuni documenti contemporanei messi poi parzialmente a contributo da Giustiniano, né, an­cora, per taluni testi normativi rintracciabili altrove dalle tradizionali collezioni di diritto romano.

È netta la sensazione che la forza catalizzatrice del materia­le imperatorio ordinato nella prima metà del sec. V si sia rivelata più tenace e stimolan­te rispetto a quella di singole leges ‘religiose’ variamente spar­se, oppure artificiosamente collocate, nelle epoche che imme­diatamente seguirono a quella della compilazione.

Per ciò che riguarda l’atteggiamento religioso ufficiale della piena monarchia di Teodosio II, rimane impos­sibile prescindere dalla produzione giuridica ordinata nel Codex, e in particolare di quei testi nei quali il legislatore si è occupato intenzionalmente proprio della Christiana fides.

Proprio il fatto che si fossero organizzate tante e concludenti constitutiones in un apposito libro posto in coda agli altri quindici dovrebbe costituire un sicuro, probante indizio della nuova considerazione che il legislatore stesso attribuiva all’ampio tema religioso. Il raccogliere insieme la parte più congrua e significativa del ius imperatorio rela­tivo alla chiesa e alla religione non ha rappresentato solo una scelta sistematica, bensì il consapevole riconoscimento da parte dei compilatori della grande importanza assunta dalla materia religiosa e del suo enorme peso giuridicamente rilevante.

Senza alcuna necessità di ricorrere agli antichissimi principi romani facenti capo al ius divinum o al ius sacrum per motivare la posizione finale della materia religiosa nel Teodo­siano, e quindi senza bisogno di richiamarsi alla buona disposizione dei giureconsulti classici nei riguardi delle humanae res come di quelle divinae, la presenza della Christia­na fides e della ecclesia nell’ampio tratto terminale del Codex può forse spiegarsi altrimenti. Tale posizione trovava origine proprio nella singolare e nuova rilevanza della catholi­ca lex nella società dei secc. IV e V, e perciò anche nei suoi importanti riflessi giuridici. Il compilatore teodosia­no, tenuto conto della sicura estraneità della catholica lex sia al diritto privato che al diritto pubblico, nel suo percorso sistemati­co non avrebbe potuto che proce­dere in maniera analoga a quanto già realiz­zato dalla scienza giuridica dell’età classica.

A differenza di quanto poi avverrà in più ampia prospettiva coi libri legum del sec. VI, l’opzione che andava a sistemare la gran parte delle norme sulla religione come formalmente residue rispet­to a tutte le altre del Codice appariva perfettamente in linea col pensiero giuridico del passa­to, era il segno deciso di una continuità culturale, essa ripropone­va tappe analoghe a quelle della più consapevole riflessione giuridica pervenuta per il tramite degli antichi autori. Per richiamare l’ultima giurisprudenza cd. d’autore, basti solo riflettere sul modus operandi che era stato del tardo Ermogeniano che, nell’avviare i 6 libri iuris epitomarum ave­va in certo qual modo avvertito i propri lettori dello schema generale di cui si sarebbe avvalso nell’approntare la sua raccolta (raccolta che a seconda degli argomenti sarebbe stata informata alla prassi scientifica ormai passata).
Un analogo modo di procedere avrebbe ispirato molto più tardi i tec­nici-codificatori di Costantinopoli, non casualmente, dunque, la can­celleria di Teodosio II aveva deciso così nel fornire ai commissari alcune utili in­dicazioni ordinatorie.

A tale consapevolezza siste­matica non poteva che corrispondere una uguale cono­scenza scientifica del nuovo ed innegabile prevalere delle con­stitutiones relative al ius publicum rispetto a quelle di diritto privato. Da qui le varie opzioni nello stabilire l’opportuna sede codificatoria di tutta una serie di norme, nuovissime, e fra esse specialmente le tante leges religiose. Non vi è altra ratio alla base dell’accorpamento di ben 200 leggi nel libro XVI, e la distribuzione di solo qualche decina di testi ‘religiosi’ nei titoli dei precedenti quindici li­bri. L’assegnazione di qualche legge de episcopali definitione al segmento relativo alle fonti ed ai diversi officia (CTh 1, 27), l’inserimento delle norme de manumissionibus in eccle­sia e quelle de bonis clericorum et monachorum fra le regole privatistiche (CTh 4, 7 e 5, 3), le previsioni de his qui ad ec­clesias confugiunt situate fra le disposizioni di diritto crimi­nale (CTh 9, 45) non possono che dare estremo risalto al­l’ordine intrinseco tratteggiato nell’ultima sezione del Co­dex. Appunto per contrasto, sono le stesse norme ‘religio­se’ sparse nei primi quindici libri a connotare il XVI «come corpo complessivamente omogeneo»: esse sembrerebbero essere la conferma della or­ganica visione degli argomenti di fede cattolica presente alla mente degli operatori di diritto dell’epoca teodosiana.

Pertanto, se da un punto di vista squisitamente formale è probabile che fossero state ragioni scientifico-si­stematiche ad indirizzare i compilatori orientali verso un criterio di residualità codificatoria nei riguardi del materiale sulla religione, queste stesse ragioni dipendevano dall’esigenza di colloca­re in modo adeguato, in un ambito subito evidente, i temi legati alla chiesa, alla importante gerarchia di essa, a certi suoi non irrilevanti risvolti sociali. Tale esigenza, a maggior ragione, richiedeva spazi consoni per gli argomenti connessi alla parte più intima della fede dei sudditi.

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