Le sanzioni furono generalmente aggravate, e in particolare la pena di morte fu applicata con una frequenza e una ferocia del tutto ignoti al precedente diritto.

Gli interventi imperiali ebbero spesso carattere occasionale e arbitrario: numerose costituzioni appaiono emanate in base a criteri di momentanea contingenza. Ciò rende arduo rappresentare in sintesi le grandi linee del diritto penale di questo periodo, non riconducibile a una concezione organica e unitaria.

In materia di crimen maiestatis la legislazione denota la tendenza ad estendere la tutela anteriormente riservata alla persona del principe a vari aspetti dell’apparato statale. Gli accusati di maiestatis vennero sottoposti alla tortura senza distinzioni di classe, e gli schiavi furono autorizzate ad accusare i loro padroni. Le pene non subirono modificazioni rispetto all’età precedente, ma in ipotesi di particolare gravità la condanna fu fatta ricadere anche sui figli e sui discendenti del reo.

Si estese anche l’ambito del crimen repetundarum, che arrivò a comprendere una serie di abusi perpetrati dai funzionari della burocrazia imperiale. Nuove e svariate figure di reato furono introdotte all’intento di arginare il disordine amministrativo e la corruzione dei pubblici ufficiali: le costituzioni comminarono anche in questo campo la pena di morte, giungendo in alcuni casi a punire la trasgressione anche se non era dolosa.

Pene severissime furono sancite per il peculato: i funzionari che in attività di amministrazione avessero sottratto denaro pubblico venivano puniti con la morte insieme ai loro complici e a quanti avessero ricevuto in consegna la refurtiva.

Quanto al sacrilegio, in origine considerato una particolare forma di peculato, venne concepito come un delitto contro la religione, nel quale rientravano non solo le offese recate ai sacerdoti e ai luoghi di culto, ma anche l’inosservanza delle disposizioni legislative ed amministrative del principe, in quanto promanate da un’autorità fornita di investitura divina.

Il crimen ambitus si identificò essenzialmente con l’accordo stretto a un dato prezzo con un dignitario di corte per ottenere una carica palatina o un honor la cui concessione era riservata al principe. Erano puniti allo stesso titolo anche coloro che si fossero resi colpevoli di iterazione di un pubblico ufficio in violazione dei divieti imperiali. La pena consisteva nella deportazione.

Energica fu la repressione della vis. Costantino abolì ogni distinzione tra vis publica e vis privata e inflisse per qualsiasi tipo di violenza la pena di morte, dichiarando inappellabile la relativa sentenza. Tra i delitti contro la fede pubblica assunse particolare gravità e importanza la falsificazione monetaria. Rientrarono nel concetto di falso anche l’alterazione di moneta corrente mediante limatura, lavaggi chimici, doratura o argentatura, il rifiuto di moneta contrassegnata col volto dell’imperatore, la fusione di moneta coniata al fine di trarre profitto dal valore intrinseco del metallo.

In materia di delitti contro l’amministrazione della giustizia, la nozione di calumnia fu estesa fino a comprendere qualunque accusa destituita di prova o che non determinasse la condanna dell’accusato.

La sfera dei delitti contro la persona fu estesa, e le pene furono rese più gravi. Per il parricidio Costantino sancì la poena cullei anche nel caso di uccisione di familiari diversi dai genitori, e incluse nei termini del reato l’uccisione del figlio da parte del padre. Con pena capitale furono puniti anche l’infanticidio e l’esposizione dei neonati. La stessa pena fu inflitta per la castrazione, anche se nessuno schiavo.

Il plagio, diffuso nel basso impero, fu represso con la massima severità, attraverso la pena capitale.

In tema di delitti contro l’ordine delle famiglie e contro la morale, la legislazione risente dell’influenza ideologica del cristianesimo. Nell’ambito dell’adulterio Costantino circoscrisse la facoltà di accusare la donna di adulterio al marito, al padre e agli stretti congiunti. Il marito fu inoltre autorizzato a divorziare solo dopo aver sperimentato l’accusa e ottenuto la condanna della moglie: l’adulterio divenne infatti una causa legale di ripudio. La pena prevista era la vivicombustione.

Meno gravi erano le sanzioni previste per lo stuprum, salvo i casi di pederastia per i quali era prevista la pena di morte. Stessa condanna era prevista per il contubernio di una donna con il proprio schiavo.

Il ratto fu configurato come delitto autonomo. Le pene colpivano non solo il rapitore, ma anche la rapita che lo avesse volontariamente seguito e gli eventuali complici. Non erano consentite nozze riparatrici. Con pari rigore era punito il rapimento di vergini e vedove antimoniali (votate a Dio e alla castità) e addirittura il loro corteggiamento a scopo di matrimonio.

Anche il lenocinio divenne un crimine a sé stante. Venne fatto divieto al padre o al padrone di prostituire la figlia o la schiava. Vennero eseguite con estremo rigore anche le nozze incestuose.

Tipica di quest’epoca fu infine la repressione dei delitti di fede, particolarmente intensa dopo che la monarchia assunse il cristianesimo come religione ufficiale dello Stato. La legislazione colpì con sanzioni i movimenti ereticali e i seguaci di credenze religiose diverse da quelle ufficiali, ma il suo orientamento fu spesso mutevole e oscillante, in relazione al diverso pericolo e alla diversa gravità della minaccia alla religione cristiana.

Richiedi gli appunti aggiornati
* Campi obbligatori

Lascia un commento