Dei fatti da provare il testimone può avere una conoscenza:

  • diretta, se ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi;
  • indiretta, se ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri a riferito a voce (de auditu), per scritto (de relato) o con altro mezzo.

La persona da cui si è “sentito dire” (anglosassone hearsay), indicata con l’espressione teste di riferimento, può aver percepito personalmente il fatto (teste diretto) oppure, a sua volta, può averlo appreso da altri (teste indiretto).

Occorre comunque sottolineare il problema principale della testimonianza indiretta. Nel processo penale, infatti, attraverso l’esame incrociato, è possibile accertare la credibilità e l’attendibilità del testimone che ha avuto conoscenza personale del fatto da provare. Quando il fatto è conosciuto dal testimone “per sentito dire”, tuttavia, occorre accertare l’attendibilità non solo del testimone indiretto, ma anche di quello diretto.

Il codice, quindi, pone due condizioni all’utilizzabilità della deposizione indiretta:

  • che il testimone indiretto indichi la persona (o la fonte) da cui ha appreso la notizia dei fatto oggetto dell’esame (art. 195 co. 7). La mancata individuazione della fonte, impedendo di valutare la credibilità e l’attendibilità di quanto è stato riferito, produce l’inutilizzabilità della notizia;
  • che il giudice, qualora le parti lo richiedano, disponga la citazione della persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto (co. 1). In eccezione a quanto disposto dal comma 1, la testimonianza indiretta è comunque utilizzabile quando l’esame del testimone diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità (co. 3).

Il codice, peraltro, permette al giudice anche di disporre di ufficio la citazione del testimone diretto, se essa non è stata richiesta dalle parti (co. 2).

Occorre comunque sottolineare il disposto dell’art. 195 co. 6, che sancisce il divieto di assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o di ufficio (es. avvocato), salvo che queste abbiano comunque divulgato tali fatti.

Il codice pone un divieto di testimonianze sulle dichiarazioni comunque rese dall’imputato in un atto del procedimento (art. 62): la prova di tali dichiarazioni, infatti, deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento . Tale divieto di testimonianza indiretta, quindi, risulta finalizzato ad evitare che siano introdotti surrettiziamente nel processo elementi che non risultano dalla documentazione formale dell’atto.

L’area operativa del divieto è ricavabile dallo stesso art. 62:

  • il divieto ha carattere oggettivo, riferendosi a chiunque riceva le dichiarazioni (es. privato, polizia giudiziaria);
  • il divieto ha per oggetto dichiarazioni in senso stretto, ossia di contenuto narrativo. Sono quindi normalmente riferibili quelle dichiarazioni che costituiscono espressioni di volontà (es. consenso ad un trattamento diagnostico) o meri comportamenti;
  • il divieto opera nei confronti di quelle dichiarazioni rese nel corso del procedimento , ossia in occasione di un atto tipico;
  • il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di prove e non quelle che siano rilevanti come fatti storici di reato.

L’art. 195 co. 4 stabilisce che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle seguenti dichiarazioni:

  • delle informazioni sommarie assunte dai testimoni o dagli imputati connessi (art. 351);
  • delle denunce, delle querele o delle istanze;
  • delle informazioni e delle dichiarazioni spontaneamente rese dall’indagato (art. 357 co. 2).

La ratio che ha indotto il legislatore a vietare la testimonianza indiretta della polizia consiste nella volontà di evitare aggiramenti della regola in base alla quale in dibattimento le precedenti deposizioni sono utilizzabili soltanto ai fini della contestazione. Lo stesso art. 195 co. 4, comunque, stabilisce che, fuori dalle ipotesi di espresso divieto, la testimonianza indiretta della polizia è ammessa e si applicano le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 del presente articolo (es. polizia chiamata a riferire su dichiarazioni percepite fuori dall’esercizio delle sue funzioni).

La formulazione dell’art. 195 co. 4, tuttavia, ha dato luogo ad un ulteriore problema. In particolare, dato che tale norma vieta determinate modalità di acquisizione (es. verbale ex art. 357), ci si è chiesti se fosse consentita la deposizione indiretta sulle informazioni non verbalizzate. La Corte costituzionale, tuttavia, ha risposto in senso negativo, dichiarando illegittima l’interpretazione estensiva del divieto (co. 4) perché irragionevolmente lesiva del diritto di difesa e dei principi del giusto processo

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