Occorre adesso chiedersi quali conseguenze derivano sul piano internazionale se l’organo che stipula l’accordo non ha competenza o comunque non segue forme o procedure previste. Tale problema della competenza a stipulare cominciò a porsi nel corso nel secolo scorso, quando si andò gradualmente affermando il principio che le assemblee legislative dovessero intervenire nelle decisioni concernenti la ratifica di determinati trattati, con la conseguente limitazione dei poteri del sovrano. In epoca più recente la discussione si concentra sui rapporti tra potere esecutivo ed organi legislativi e sugli accordi conclusi dal primo senza il consenso dei secondi: la discussione, insomma, riguarda gli accordi in forma semplificata.

La maggior parte degli studiosi, in presenza di una prassi internazionale incerta e contraddittoria, concordano nell’escludere soluzioni radicali sia in senso internazionalistico sia in senso interistico:

  • si esclude che per il diritto internazionale i trattati stipulati direttamente dall’esecutivo siano in ogni caso validi, ossia che l’esecutivo abbia lo ius repraesentationis omnimodae;
  • si esclude che qualsiasi vizio, anche soltanto formale, dal punto di vista del diritto interno possa inficiare la validità internazionale dell’accordo.

Ripudiate queste soluzioni estreme, tuttavia, cessa la concordia e varie sono le teorie intermedie che vengono sostenute privilegiando questa o quella manifestazione della prassi. Una soluzione vicina alla soluzione internazionalistica è contenuta nell’art. 46 della Convenzione di Vienna che stabilisce che il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia espresso in violazione di una regola del suo diritto interno non può essere invocato da tale Stato come vizio del consenso, a meno che la violazione non
sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. Una violazione è manifesta se è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede. Alcuni dati che emergono dalla prassi sono abbastanza significativi al fine di accertare lo stato del diritto consuetudinario:

  • quando i Governi si impegnano sul piano internazionale per materie che rientrano nella sfera di competenza di altri organi (es. Parlamenti), sono gli stessi Governi a procurarsi prima o poi una qualche forma di assenso o approvazione da parte dell’organo interessato;
  • di fronte a denunce di violazioni di accordi conclusi esclusivamente dall’esecutivo, è estremamente difficile stabilire se ciò avviene con la convinzione di sollecitare il rispetto di veri e propri impegni di carattere giuridico o solo per motivi politici o di propaganda;
  • la giurisprudenza interna si rifiuta di applicare trattati conclusi dai rispettivi Governi in violazione di norme interne fondamentali sulla competenza a stipulare, senza preoccuparsi della riconoscibilità delle violazioni da parte di altri contraenti.

Stando così le cose, quindi, si ritiene che l’art. 46 della Convenzione di Vienna:

  • corrisponda al diritto internazionale generale quando codifica il principio che la violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato (es. mancanza del concorso del Parlamento nelle materie di cui all’art. 80 Cost.);
  • non corrisponda al diritto consuetudinario nella parte in cui enuncia il principio della buona fede: l’accordo concluso dall’esecutivo senza la relativa competenza costituzionale è e resta un’intesa priva di carattere giuridico. Una simile intesa potrà acquistare il valore di vero e proprio accordo internazionale nel momento in cui l’organo messo da parte manifesti il suo assenso.
Richiedi gli appunti aggiornati
* Campi obbligatori

Lascia un commento