Quello della disciplina del contratto collettivo è il cruciale problema lasciato aperto dalla non attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. Come detto, la tendenziale funzione di supplenza assunta dal diritto privato, che ha fatto parlare di contratto collettivo <<di diritto comune>>, non ha consentito di accedere ad una regolazione organica del contratto collettivo. Con riferimento alle componenti fondamentali della disciplina di tale istituto, quindi, è possibile immaginare una scelta integralmente astensionistica dell’ordinamento giuridico, improntata al rispetto del principio di libertà.

La difficoltà di fare i conti con l’art. 39 è stata cruciale per l’esperienza del diritto sindacale post-costituzionale, dal momento che tale articolo, pur non essendo attuato, ha di fatto bloccato qualunque sviluppo legislativo di segno diverso: una legge che avesse disciplinato compiutamente il contratto collettivo senza passare per la via dell’implementazione costituzionale sarebbe entrata in contrasto con l’art. 39. La scelta astensionistica del legislatore, quindi, è divenuta il simbolo dell’esperienza giussindacale italiana, che la dottrina ha sovente proposto di leggere in positivo, come inveramento del principio costituzionale-privatistico di libertà. Questo stesso principio, a sua volta, ha ispirato la concreta disciplina dell’istituto del contratto collettivo, la responsabilità di elaborare la quale è ricaduta sulle spalle della giurisprudenza.

La risposta all’interrogativo se il contratto collettivo sia o meno una fonte del diritto del lavoro non è mai stata facile, e continua a non esserlo:

  • da un lato, il contratto collettivo è stato costruito su basi fondamentalmente privatistiche, cosa che ha comportato l’impossibilità di includerlo tra le fonti.
  • dall’altro, la vistosa e incontrovertibile realtà di un diritto del lavoro <<concreto>>, che non vive tanto attraverso le norme di legge, quanto in quelle dei vari contratti collettivi, ha spesso indotto la dottrina ad annoverare il contratto collettivo tra le fonti del diritto del lavoro.

I vari tentativi della dottrina, volti alla ricerca di una <<quadratura del cerchio>> tra l’origine privatistica del contratto collettivo e la propensione pubblicistica dello stesso, non sono mai arrivati a recidere il cordone con la concezione privatistica, sebbene essa sia stata riveduta e corretta in direzione pubblicistica. In definitiva, quindi, si è confermato il carattere invincibilmente <<ibrido>> dell’istituto, destinato a restare espressione di una peculiare giuridicità, sia privata che pubblica.

Occorre, tuttavia, dar conto di un importante elemento in favore di una visione pubblicistica del contratto collettivo. In passato, la violazione e la falsa applicazione di un contratto collettivo, non essendo esso annoverabile fra le fonti in senso formale, non sono mai state direttamente deducibili davanti alla Corte di Cassazione (art. 360 n. 3 c.p.c.). Al massimo tale deducibilità era indiretta, qualora fosse possibile denunciare, a proposito di un contratto collettivo, la violazione delle norme di legge concernenti l’interpretazione dei contratti. Al contrario, con la novellazione dell’art. 360 operata dal d.lgs. n. 40 del 2006 (art. 2), si è ammesso il ricorso alla Cassazione anche per violazione o falsa applicazione <<dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro>>, con parificazione, per questo aspetto, del contratto collettivo ad una legge.

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