Non esiste alcun principio o regola costituzionale che autorizzi a praticare discriminazioni di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri (artt. 35 e ss. Cost.). Si deve ritenere, quindi, che, laddove l’art. 10 co. 2 Cost. dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalle legge , tale riserva di legge incontri un limite costituzionale nel dovere di non discriminare lo straniero.

Nello stesso art. 10 co. 2, si dispone anche che la legge deve conformarsi alle norme ed ai trattati internazionali , principio questo confermato dall’art. 2 co. 1 del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritti internazionale generalmente riconosciuti .

A tale proposito le fonti internazionali di riferimento sono:

  • la convenzione OIL n. 143 del 1975 sui lavoratori migranti, che, pur consentendo agli Stati di prendere provvedimenti contro l’immigrazione irregolare, prevede come principio fondamentale quello della parità di trattamento con il lavoratore interno.
  • la Carta sociale europea (art. 19 n. 4) del 1961.
  • la Carta di Nizza (art. 15 co. 3), secondo la quale i cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione .

Se la disciplina del rapporto con lavoratori extracomunitari non presenta, come appena detto, significativi profili di specialità, al contrario, oggetto di una specifica regolazione è il momento dell’accesso dei suddetti lavoratori sul mercato del lavoro nazionale. La disciplina italiana, al riguardo, ha avuto una formazione stratificata e alluvionale:

  • inizialmente il fenomeno migratorio era considerato una mera questione di polizia, e conseguentemente l’immigrato veniva presentato come un soggetto pericolo per l’ordine pubblico.
  • successivamente si è imposta una regolamentazione via via più attenta ai fabbisogni e agli strumenti di governo del mercato del lavoro:
    • in una prima fase si è privilegiata un’ottica meramente statica e individuale, inadeguata a gestire la complessità del fenomeno.
    • in una seconda fase si è adottata una più ampia e dinamica prospettiva di programmazione annuale dei flussi migratori. La normativa che ne è derivata, tuttavia, raccolta nel Testo unico sull’immigrazione e la condizione dello straniero (d.lgs. n. 286 del 1998), non si è mai definitivamente assestata.
    • l’ultima fase di tale evoluzione è rappresentata dalla l. n. 189 del 2002 (Bossi-Fini), la quale ha novellato il d.lgs. n. 286 del 1998. Il messaggio di questa legge è stato quello secondo cui l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero per soggiorni duraturi si giustificano soltanto in relazione all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita.

Le legge Bossi-Fini, tuttavia, pur non mancando di introdurre alcune novità (es. inasprimento della repressione dell’immigrazione irregolare), è stata sopravvalutata a livello mediatico.

Attualmente il sistema si basa sul principio della programmazione dei flussi in entrata, attraverso decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i quali, di norma annualmente, determinano le quote massime di ingresso per ciascun anno. Il problema centrale del collocamento dei lavoratori in esame, comunque, riguarda la correlazione da stabilire tra le norme in tema di soggiorno del lavoratore extracomunitario e quelle in tema di accesso al mercato del lavoro: l’ingresso in Italia per motivi di lavoro, infatti, è subordinato al compimento di una procedura amministrativa tipica, a struttura binaria:

  • come cittadino straniero, l’immigrato deve munirsi di un permesso di soggiorno nello Stato.
  • come aspirante al lavoro, l’immigrato deve essere autorizzato da parte di un organismo competente.

Il nesso fra soggiorno e autorizzazione al lavoro esisteva anche nella disciplina preesistente alla legge Bossi-Fini, e infatti l’art. 22, come modificato dalla legge in questione, non contempla soverchie modifiche a questo sistema, se non per un collegamento in qualche misura più stretto tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. A tutto deve essere premesso il fatto che la competenza è passata dalle Direzioni provinciali del lavoro ad uno Sportello unico per l’immigrazione, costituito presso la prefettura.

Detto questo è necessario andare ad analizzare il procedimento concreto:

  • il datore di lavoro che intenda instaurare un rapporto subordinato con uno straniero deve farne richiesta allo Sportello unico, presentando:
    • la richiesta nominativa di nulla osta al lavoro.
    • la documentazione relativa all’alloggio dello straniero.
    • la proposta di un contratto di lavoro con soggiorno .
    • lo Sportello trasmette la richiesta al Centro per l’impiego, onde verificare se vi sono lavoratori italiani o comunitari interessati al medesimo posto.
    • lo Sportello, decorsi venti giorni (meccanismo di silenzio-rifiuto), procede al rilascio del nulla osta al lavoro (valido al massimo sei mesi), previo accertamento che siano rispettate, nel contratto, le condizioni di cui al contratto collettivo applicabile e, chiaramente, nei limiti delle quote fissate.
    • i Consolati del paese di residenza o di origine dello straniero rilasciano il visto di ingresso.
    • il lavoratore, entro otto giorni dall’ingresso, si reca presso lo Sportello per la firma del contratto di lavoro con soggiorno.
    • avvenuta la stipulazione del contratto, è finalmente rilasciato il permesso di soggiorno da parte della Questura.

Il contratto di lavoro, come in passato, non può essere stipulato per un periodo superiore alla durata massima del permesso di soggiorno:

  • la durata è di 9 mesi per uno o più lavori stagionali.
  • la durata è di 1 anno per un contratto di lavoro subordinato a termine.
  • la durata è di 2 anni per un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il lavoratore, qualora perda il posto di lavoro per qualsiasi motivo, può essere iscritto in quelle che in passato si chiamavano liste di collocamento (attualmente consistono in semplici elenchi tenuti dai Centri per l’impiego) per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno

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