A larga parte della dottrina costituzionalistica europea del Novecento il partito non è apparso come un corpo estraneo all’assetto costituzionale, ma come un soggetto del quale andavano garantite le risorse di libertà ma anche arginate le potenzialità invasive di quasi tutti gli ambiti della vita pubblica.

È questo l’approccio delle tendenze razionalizzatrici sviluppatesi tra le due Guerre. Questi furono i primi tentativi di disciplinare legislativamente i partiti e l’estremismo politico.

Le teorie che si sono sviluppate nell’approccio al partito politico sono:

– la teorie del partito come parte totale

– la concezione della Costituzione materiale di Mortati

– la teoria dello Stato di partiti

– l’unione di componenti rappresentative e componenti plebiscitarie

La riflessione negli anni ’20 e ’30 culminò nella ricostruzione teorica del partito come parte totale, capace cioè di superare il particolarismo della società e farsi portatore di una visione politica generale destinata ad influire sulla direzione politica dello stato. Tale indirizzo segna uno snodo decisivo per la collocazione dei partiti nelle costruzioni del pluralismo. Ma poiché il popolo non è configurabile come capace di esprimere una volontà unitaria, ma solo varietà di opinioni concorrenti, il partito viene a collocarsi al centro della tensione dialettica tra pluralismo sociale e spinta unificante dei processi di decisione statali.

Quest’approccio fu la risposta ad interpretazioni radicali del pluralismo: quella relativistica di Kelsen che vedeva il partito come mero strumento della divisione del lavoro nel parlamento, e quella antipluralistica di Schmitt che criticava la parcellizzazione del pluripartitismo nelle policrazie.

Si deve alla teoria della parte totale aver espresso la complessità del rapporto tra stato e società nelle democrazie pluralistiche. Il partito è radicato nella società capace di raccogliere e filtrare le domande che questa esprime e assicurare la responsività (responsiveness) delle istituzioni rappresentative.

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