Klaus Von Beyme → il partito è elemento di discriminazione perché evoca visioni radicalmente diverse della società. E di esso sono state riproposte accezioni alternativamente negative (fonte di disgregazione della società) o positive (divisioni sono fattore di crescita).

Queste due posizioni si sono fronteggiate fino agli albori dell’età moderna, e in contesti storici molto differenti:

– mondo greco: lotte tra partiti considerate come un’anomalia perché ledono l’unità della polis.

– repubblica romana: le partes erano identificate con le faccione avverse (Sallustio) o in una considerazione più neutrale di contrapposizione di classe (Cicerone).

– pensiero politico medievale: la separazione della moltitudo in partes era esorcizzata come un pericolo per la retta ordinatio regiminis (Tommaso D’Aquino).

– rinascimento: Machiavelli esaltava l’intrinseca vitalità del conflitto politico.

Nell’età moderna si accentuarono gli approcci negativi della divisione in partiti della società, soprattutto per via delle guerre di religione.

Nelle concezioni costituzionalistiche, invece, vi era un approccio più sensibile alla struttura della società. Basti pensare a Montesquieu e al pensiero costituzionale settecentesco cui va fatto risalire il concetto moderno di partito. Ha posto le basi per l’innesto tra organizzazione politica della società e assetti della forma di governo.

Bolingbroke → modello di equilibrio tra un patriot king e i National parties liberati da interessi particolaristici e portatori di interessi generali.

Edmunde Broke → partito definitivamente sganciato dal pregiudizio del riferimento al “nemico politico” e diventa fondamento dello schema dell’alternative government.

Lo sforzo di mettere a fuoco il concetto di partito nella realtà costituzionale andò smarrito negli sviluppi del costituzionalismo rivoluzionario in Francia e poi in quelli dello Stato liberale nell’Europa continentale.

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