Negli scritti dedicati alla grande guerra, Gentile critica tanto i nazionalisti con i loro miti quanto i “nemici interni” che si oppongono all’intervento bellico. Il pacifismo gli appare come un atteggiamento “privo di senso storico ossia di vero e proprio senso della realtà”. Senza la possibilità rigenerativa della guerra si perderebbe la stessa dimensione della politica. La serietà della guerra induce gentile a segnalare la lontananza dai nazionalisti e da ogni esaltazione estetica per il sacrificio, l’eroismo.

Dice Gentile che la guerra è il nostro atto assoluto, il nostro dovere, e ogni singolo deve essere pronto all’appello, deve sentire dentro di se il richiamo della nazione, della volontà comune che esige il sacrificio e l’accantonamento di ogni futile capriccio individuale. Un altro concetto chiave è quello di nazione. Egli prende decisamente le distanze da un nazionalismo naturalista. Gentile respinge ogni riconduzione della realtà spirituale della nazione al fatto bruto del sangue e della terra.

La nazione incarna piuttosto “una coscienza, un bisogno interiore, un processo morale, un atto di vita”. Gentile suppone che solo dall’immensa grandiosità della guerra possano sorgere quelle energie morali in grado di ristrutturare la convivenza tra gli italiani. Per il recupero di un alto senso dello stato occorre che si realizzi un incontro serio tra cattolicesimo e liberalismo.

Gentile è al tempo stesso un liberale che riconosce il valore della fede e un cattolico che sente il valore laico dello stato come sfera pubblica comune capace di dare significati etici profondi al vivere insieme in un territorio. L’incontro tra il liberalismo e cattolicesimo è possibile purché avvenga nel solido terreno dello stato etico. Gentile: “lo stato vero non è quello che esiste di fronte all’individuo, ma quello stesso che l’individuo realizza”. In uno stato siffatto, cade ogni demarcazione tra pubblico e privato e diventano superflue tutte le sottigliezze d’origine giusnaturalistica circa le garanzie individuali.

Per lui lo stato in quanto diramazione etica e ideale scavalca ogni interesse contingente ed è capace di ospitare una molteplicità di manifestazioni economico-sociali. Il punto nel quale il Gentile liberale inquieto anticipa tutte le principali idee del Gentile fascista è quello della precisazione del concetto di comunità etica vista come alternativa all’insostenibile realtà dell’atomismo e del particolarismo.

Nostalgico di una comunità etica che inghiotte le libertà astratte degli individui particolari come del tutto irrilevanti, Gentile non può che auspicare una rigenerazione complessiva che vada oltre le sabbie mobili della corruttela giolittiana e parlamentare.

Degli organi istituzionali della vecchia Italia, Gentile sembra salvare solo la monarchia. Più che di una conversione del filosofo al fascismo si potrebbe parlare di riconduzione del fascismo entro i cardini dell’attualismo.

Gentile pubblica la terza edizione dei fondamenti; nel nuovo capitolo dedicato ad Hegel viene precisato il metodo hegeliano di aver scoperto il concetto di stato etico confutando il contrattualismo del liberalismo precedente. Hegel vede il carattere etico dello stato. Dove l’esperienza del fascismo sollecita l’allestimento di nuove idee è nel tentativo di costruire uno stato corporativo. Lo stato corporativo è del tutto coerente con una filosofia politica che rigetta la nozione di società civile e respinge con accanimento ogni manifestazione di particolarismo.

Per Gentile “nell’effettiva realtà umana non c’è dato economico che non sia etico, e quindi politico; non cioè società civile che non sia anche stato”. La conseguenza di questa supposta identificazione di stato e società è la rimozione di tutto il corredo di garanzie riservato dallo stato di diritto all’individuo singolo e alle libere associazioni.

Gentile, nella sua ultima opera, scrive che “l’individuo umano non è atomo. Immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Non c’è Io che non abbia, non seco, ma in se medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius”.

L’altro, il socio, è la proiezione di un atto spirituale che riconosce l’altro come parte di una medesima comunità di destino. L’individuo che viene negato è l’individuo del mercato industriale, soggetto di diritti e rivolto al suo ben compreso interesse. Al posto di un individuo che opera nel mondo come un atomo compare un individuo concreto consapevole dei doveri verso la nazione, inserito in una comunità organica che non contempla diritti per gli atomi della vecchia società civile. Ogni interesse viene riconosciuto, ma per essere spiritualizzato deve essere preliminarmente depurato da ogni incrostazione naturalistica che lo rende conflittuale.

Alla società moderna che produce cose attraverso il libero contratto di lavoro, l’attualismo contrappone una comunità mistica i cui referenti sono l’amore e l’unificazione statuale che scavalca ogni dimensione naturale e sensibile della coesistenza tra gli individui.