I tribuni della plebe, capi rivoluzionari della plebe e loro leaders politici, sono sicuramente legati ad una data molto significativa, il 367.

Da quel momento, infatti,ebbero poteri e attribuzioni sempre più ampie, riconosciute all’interno della società e divenute idonee a far loro attuare, all’interno delle istituzioni, l’auxilium plebis: fondamentale, infatti, divenne la funzione storica di difensori e garanti della plebe. I tribuni assolsero a questo compito fondamentale con impegno ed equilibrio, dapprima guidando con efficacia la lotta dei plebei contro i patrizi per il riconoscimento dei loro diritti: quindi divenendo gradualmente protagonisti dello scenario politico romano.

Fondamentale, al riguardo, risulta essere l’esercizio dell’auxilii latio, la facoltà che si erano arrogati di sottrarre a singoli atti di esercizio dell’imperium dei supremi magistrati patrizi i plebei che di volta in volta ne fossero minacciati o la plebe nel suo complesso.

Dal 449 in poi fu determinante poi la loro riconosciuta inviolabilità che li rendeva immuni da qualsiasi coercizione da parte di chiunque, anche da parte dei supremi magistrati patrizi.

Attraverso l’efficace esercizio da parte dei tribuni dell’auxilii latio, fu resa concreta la possibilità per i tribuni stessi di intercedere, dunque di porre un veto, attraverso l’intercessio tribunicia, agli atti di imperio di qualsiasi magistrato, paralizzandone l’azione e rendendo impossibile l’attuazione delle decisioni prese in essere dai principali organi di governo.

Gradualmente, l’intercessio tribunicia si configurò come un vero e proprio ius, di cui disponeva ciascun tribuno, che poteva esercitarlo anche senza il necessario consenso da parte degli altri suoi colleghi. L’antico potere di intercedere appare impiegato nei confronti di tutti i magistrati, tranne che dei censori per gli atti che riguardavano il censimento.

Frequenti, invece, sono le testimonianze relative all’impiego dell’intercessio tribunizia nei confronti dei consoli, a cui impedirono ad esempio di convocare o proseguire i comizi per l’elezione dei successori, di presentare proposte di legge davanti alle assemblee popolari.

In questo modo, i tribuni riuscivano a paralizzare l’operato di alcuni magistrati e ad impedire l’esecuzione di alcune loro deliberazioni sgradite.

I tribuni plebis intervenivano anche nell’amministrazione della giustizia criminale e civile, rendendo inefficaci atti di magistrati giusdicenti.

A questo proposito, ai tribuni venne riconosciuta una summa coercendi potestas, in virtù della quale potevano mettere delle multe, ordinare il sequestro di beni, l’arresto di un cittadino.

A differenza dell’imperium di altri magistrati, quello della plebe era un vero e proprio potere di fatto,basato sulla spinta rivoluzionaria delle masse plebee.

Attraverso questo potere, i tribuni erano in grado di paralizzare qualsiasi tentativo posto in essere da coloro che ostacolassero il loro operato.

In tal modo, dunque, erano in grado di costringere chiunque a rispettare le loro decisioni.

Un obbligo riservato ai tribuni era quello di tenere sempre aperte le porte di casa, quello di non allontanarsi da Roma neanche per una notte o un giorno, tranne che per presiedere le assemblee della plebe, convocate fuori dalle mura della città.

Anche i poteri coercitivi dei tribuni subirono dei profondi cambiamenti, col passare del tempo: talvolta, il senato si servì dei tribuni della plebe per paralizzare l’operato di magistrati ostili ma accadde spesso il contrario; infatti, spesso il senato si servì della collaborazione di magistrati amici per impedire l’esercizio di potestà tribunizie.

L’auxilium plebis si era realizzato sin dalle origini anche attraverso la capacità positiva dei capi plebei di riunire la propria gente , parlarle, dirigerne le azioni, consultarla anche sulle questioni più importanti. Da queste importanti azioni, deriva un vero e proprio diritto di agere cum plebe: in virtù di questo importante potere, ogni tribuno aveva il potere di convocare i concilia plebis, dirigerne i lavori, proporre agli intervenuti schemi o deliberazioni politiche o normative.

Solo per procedere all’elezione dei nuovi tribuni, lì assemblea era convocata non dai singoli tribuni ma con un editto collegiale, da tutti quelli in carica.

A differenza di altri magistrati, i tribuni restavano in carica un anno e potevano essere poi rieletti, anche se per svariati motivi, si scoraggiava la rielezione di coloro i quali avevano assunto la carica in precedenza.

Vero la fine del III secolo, ai tribuni fu conferito un nuovo potere, lo ius senatus habendi, consistente nel potere di partecipare alle sedute del senato e, addirittura, di convocarlo e presiederlo. Senato, quindi, che dopo il IV secolo, divenne un organo a composizione mista.

La corsa dei tribuni della plebe verso l’accesso alle cariche più importanti non si arresta qui: la lex Ogulnia lo testimonia. Essa , nonostante l’opposizione ferrea dei patrizi, riuscì ad essere approvata e permise ai plebei di accedere a due dei collegi sacerdotali più prestigiosi: quello dei pontefici e quello degli auguri.

Quando a Roma venivano a mancare entrambi i consoli senza che venissero nominati i successori, era necessario, per poter garantire la sopravvivenza stessa della società, nominare un interrè, la cui carica durava sino alla nomina di nuovi consoli.

L’interregnum diveniva, in questo caso, uno strumento istituzionale necessario per poter risolvere uno stato di urgenza e di necessità, in questo caso determinato dalla vacanza della suprema magistratura.

L’interregnum, in un certo senso, aveva come scopo fondamentale quello di ripristinare la normalità istituzionale. Esso rappresentava semplicemente un istituto eccezionale per circostanze eccezionali.

Normale, invece, nella repubblica, fu l’applicazione dell’auctoritas patrum,intesa come conferma, ratifica o convalida da parte dei soli membri patrizi del senato, delle deliberazioni delle assemblee popolari, incapaci da sole di assumere decisioni vincolanti l’intera comunità.

Lo scopo fondamentale dell’auctoritas patrum restava sicuramente quello di contenere, da parte dei patrizi, nei limiti del possibile, il potere di un’assemblea democratica, a composizione mista, inseritasi nelle strutture costituzionali della repubblica come organo deliberante dalle notevoli competenze.

La decisione di praestare o meno auctoritatem si presentava come una potestà di verifica della sola regolarità formale degli atti sottoposti ai patres; più spesso, invece, si mostrava come un potere di controllo, fondato sulla più ampia discrezionalità, del merito dei provvedimento assembleari.

Un caso particolare di auctoritas è sicuramente quello dell’auctoritas concessa dai patres nel 357 alla legge Manila.

Dal colpo di mano di Manlio Capitolino e dei senatori patrizi che si erano affrettati a ratificarne l’operato scaturirono conseguenze, anche di ordine costituzionale, utili sicuramente a comprendere le nuove dinamiche venutesi a creare all’interno della società romana nonché i meccanismi della gestione della cosa pubblica, in cui accanto agli antichi patrizi, emergono nuove forza plebee.

Nel 357, ad esempio, da un lato si stabilirono le premesse per una trasformazione della struttura stessa dei comizi, del loro modo di convocazione e di funzionamento per centurie e tribù.

Dall’altro, si verificò un’accettazione da parte dei tribuni di un uso dell’auctoritas patrum. Nello stesso tempo però, all’inverso, si ebbe anche un loro duro intervento di tipo garantista per porre un rimedio radicale all’attentato alle libertà popolari e insieme alle loro prerogative compiuto dal console convocando illecitamente ad castra i comizi.

I tribuni, senza dubbio, per condurre l’operato dei magistrati verso la legalità, imposero l’approvazione di un plebiscito, con cui si introduceva la pena capitale per chi in avvenire violasse il divieto di convocare separatamente il popolo fuori dei luoghi tradizionali delle assemblee, come aveva fatto Manlio Capitolino.

Nel 339, nell’ambito di una forte ripresa dell’iniziativa plebea, che si tradusse nella pretesa della riserva di un posto della coppia censoria e nell’ampliamento della sfera di competenza delle proprie assemblee con l’equiparazione alle leggi dei plebiscita, il dittatore plebeo Filone ottenne con una delle 3 leggi che presero il suo nome che la concessione dell’auctoritas alle deliberazioni normative del popolo fosse richiesta dai magistrati roganti, prima del voto comiziale.

In questo modo, si cercava di autoregolare l’auctoritas e di evitare un suo incontrollato e arbitrario.

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