E’ un provvedimento voluto dall’imperatore Caracalla, riguardante la regolamentazione dello status civitatis, con cui l’imperatore concesse a tutti gli abitanti dell’impero, che ne fossero sprovvisti, la cittadinanza romana.

Diversi dibattiti sono sorti in capo ai limiti soggettivi del provvedimento. Mommsen aveva sempre sostenuto, ad esempio, che da tale provvedimento fossero esclusi i peregrini nullius civitatis, gli abitanti cioè dei territori amministrati direttamente dalle autorità romane e che non godevano in alcun modo di un’autonomia cittadina.

Tuttavia, non esistono prove concrete che ci possano far pensare alla Constitutio antoniniana come ad un provvedimento discriminatorio, a danno dei sudditi dell’impero che non fossero cittadini di una qualche città. Soprattutto dalla documentazione proveniente dall’Egitto, abbiamo una prova sicura del fatto che tali sudditi non erano esclusi dalla concessione della cittadinanza. Se la cittadinanza fu, quindi, attribuita a tutti gli abitanti dell’impero, compresi i peregrini nullius civitatis, questo non significa che non vi fossero eccezioni. Mentre è discusso se la concessione si estendesse anche alle popolazioni barbariche da poco inserite nei confini dell’impero stesso, è sicuro che la cittadinanza non venne concessa ai soggetti che avessero perso lo status civitatis in seguito a condanna penale ed alle persone che appartenevano a quelle categorie di soggetti, per cui l’attribuzione di un particolare status civitatis esprimeva, invece, una condizione diversa sul piano dello status libertatis.

I problemi che sollevano maggiori perplessità sono quelli oggettivi, riguardanti gli effetti dell’acquisto della cittadinanza romana in ordine alle organizzazioni territoriali in cui si venivano a trovare i novi cives ed alla tematica del diritto che andava loro applicato.

Quanto al primo aspetto, bisogna notare come l’editto di Caracalla non contenesse alcuna previsione al riguardo e come neppure nell’epoca successiva risultino emanati provvedimenti di carattere generale su questo punto.

La constitutio non ha, dunque, creato nessun mutamento nell’ambito dell’autonomia cittadina e in quella dell’amministrazione diretta da parte del governatore provinciale.

Le civitates Latinae diventano tutte città romane, anche se inizialmente mantengono la tipologia istituzionale e amministrativa propria.

Per quanto concerne, invece, la giurisdizione, bisogna sottolineare come l’uniformazione del regime per le nuove città romane sembra essere stata attuata con gradualità. La struttura della polis, dunque, che caratterizzava l’organizzazione cittadina, continua a guadagnare spazio nei confronti dell’amministrazione diretta da parte del governo centrale, anche in un periodo in cui le forme dell’impero assoluto, ormai in via di progressiva affermazione, sembrerebbero dover favorire quest’ultima forma di amministrazione.

Per quanto concerne l’aspetto normativo, tutte le città romane si sono venute a trovare, dopo il 212 d.C, nella stessa situazione rispetto al potere del governo centrale. Ma dal punto di vista della normazione, il problema più rilevante è quello dell’individuazione del diritto da applicare ai novi cives. Un punto dal quale si è spesso partiti è quello offerto dall’osservazione per cui gli appartenenti ad una determinata civitas debbono condividerne il diritto oggettivo. E in base a ciò si perveniva facilmente alla considerazione che, ai peregrini abitanti nell’impero divenuti cives Romani non si sarebbe potuto applicare che il diritto della nuova cittadinanza che avevano assunta.

Alcuni autori, tuttavia, fra cui lo stesso Mitteis, ad esempio, sottolineano come, nonostante l’assunzione della cittadinanza romana da parte di questi popoli, nei loro territori continuassero a sopravvivere le vecchie norme e i vecchi istituti.

Si noti, comunque, come si tratti di una sopravvivenza di fatto e non di diritto. Più di recente tende ad avere una larga diffusione l’opinione variamente formulata, in base alla quale i diritti locali avrebbero continuato ad aver formale vigore. Trattasi comunque di consuetudini locali vigenti nell’ambito dell’impero che non avrebbero mai potuto derogare alle norme d’ordine pubblico dell’ordinamento romano.

Tuttavia, tale dibattito mostra come sia senza dubbio eccessiva la posizione di coloro che collocavano tale sopravvivenza su un piano di fatto, senza tener conto della possibilità che i diritti locali potessero sopravvivere come consuetudini con limitato vigore territoriale, che venivano, dunque, applicate come parti integranti dell’ordinamento dell’impero.

Il vero problema è quello dei limiti in cui, nella prassi, si applicassero le norme inderogabili del diritto romano.

E’ confermato come ciò avvenisse piuttosto rigorosamente da parte della cancelleria imperiale ma non è assicurato che lo stesso accadesse anche a livello della prassi provinciale, sia ciò dovuto alla volontaria assunzione di una linea politica di tolleranza da parte del governatore e del suo apparato burocratico o all’ignoranza del diritto da applicare da parte di operatori giuridici incolti.

Un altro profilo molto importante è quello della brutalità con cui sarebbe stata compiuta l’operazione della romanizzazione a seguito dell’estensione della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero. I problemi non si verificarono di certo in Occidente, dove l’assimilazione della cultura romana e del duo diritto era perfettamente riuscita. I problemi, invece, nascevano in capo all’Oriente, dove la cultura greca era sopravvissuta e la romanizzazione non si ebbe, anche se attraverso un processo di omologazione degli interessi delle elites politiche delle civitates peregrinae con quelli del governo romano si tentò, in tutti i modi, di rendere concreta l’applicazione del diritto romano in questi territori.

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