Il processo penale viene tradizionalmente definito come: “Una concatenazione di atti, compiuti da determinati soggetti, che tendenzialmente conducono all’atto finale rappresentato dalla sentenza”. Questa “catena” di atti, normalmente, inizia con la notizia di reato e si conclude con il passaggio in giudicato della sentenza e con la successiva esecuzione.
Molto spesso parlando del processo penale si usa confondere la nozione di processo con quella di procedimento (questo proprio perché il processo viene qualificato come una concatenazione di atti).
Il procedimento in senso stretto è costituito dagli atti che precedono l’esercizio dell’azione penale mentre il processo abbraccia, invece, tutti gli atti compiuti successivamente all’esercizio dell’azione penale che permette di scindere il processo il più fasi. La fase dell’indagine preliminare coincide con il procedimento in senso stretto e precede l’azione penale, mentre la fasi processuali, che prendono avvio con l’esercizio dell’azione penale, sono rappresentate dall’udienza preliminare e dal giudizio. Con riferimento alla fase del giudizio si possono poi specificare I gradi del processo: dibattimento di primo grado, giudizio d’appello e giudizio in cassazione.
La serie degli atti che compongono il procedimento è disciplinata dal codice. Le situazioni soggettive sono indicate come diritti, facoltà, poteri, oneri, doveri anche se poi di fatto tutte possono essere ricondotte alla suddivisione tra poteri e doveri.
I soggetti processuali operano nell’ambito del procedimento penale da intendersi come come costruzione normativa di una sequenza di atti e di corrispondenti situazioni soggettive di potere e di dovere.
Il processo non persegue solo l’obiettivo di attuare la legge penale nel caso concreto, ma riveste anche una funzione politico-assiologica di tutela di tutti I valori e gli interessi in gioco, a partire dai diritti fondamentali dell’imputato.
A prescindere da queste distinzioni formali, il fine ultimo del procedimento penale in senso lato, è il raggiungimento di una verità giudiziale, che può essere raggiunta solamente attraverso il rispetto delle regole del giusto processo, costituzionalizzare nell’articolo 111, 1° comma, Cost.
Giusto processo e verità giudiziale
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che lo scopo ultimo del procedimento penale è il raggiungimento della verità giudiziale. A tal proposito bisogna precisare che quando si parla di verità giudiziale non si intende con ciò riferirsi ad una verità assoluta, oggettivamente incontestabile. Da tempo non solo i giuristi ma anche i filosofi e gli scienziati, hanno concluso che il conseguimento di una verità assoluta e oggettiva è un’illusione, data la mutevolezza della realtà e la possibilità di giungere in futuro a nuove scoperte e verità.
Ciò è ancor più vero in ambito giuridico, dove l’accertamento della verità avviene relativamente a fatti avvenuti in passato (che non sono per ciò suscettibili a verificazione sperimentale diretta); ad opera di soggetti (il giudice e il pubblico ministero) che sono condizionati dai propri convincimenti soggettivi; sulla base di prove caratterizzate, necessariamente, da un margine di incertezza.
La ricerca della realtà oggettiva era uno degli obiettivi perseguiti dai giuristi mentre era ancora in vigore il modello inquisitorio-autoritario: questa ricerca si traduceva, normalmente, in un bieco tentativo di imporre un determinato disegno politico celandolo dietro una parola che appare subito come intoccabile: verità.
Data l’impossibilità di raggiungere una verità oggettiva, da tempo la dottrina e la giurisprudenza, che si rifanno ad un modello accusatorio garantisca, hanno ritenuto preferibile ricercare la c.d. verità semantica: essa non mira ad accertare la verità o meno di un fatto ma semplicemente un enunciato formulato e necessario a risolvere un procedimento penale in senso lato (ad es. accertate se, sulla base delle prove, è possibile stabilire la colpevolezza di Tizio per un determinato reato).