La prima fase del procedimento applicativo, in ossequio al principio di separazione delle funzioni:
- inizia quando il pubblico ministero chiede per iscritto al giudice per le indagini preliminari l’adozione di una misura cautelare personale;
- termina quando il giudice prende per iscritto una decisione sulla richiesta.
Tale fase risulta essere segreta, dovendosi necessariamente svolgere all’insaputa dell’indagato e del suo difensore. La pubblica accusa, quindi, gode di un vero e proprio potere di selezionare gli atti raccolti durante le indagini preliminari. Il giudice, al contrario, non conoscendo l’intero fascicolo delle indagini, ha una cognizione limitata nel momento in cui accerta se vi sono i presupposti per applicare una determinata misura cautelare.
La l. n. 332 del 1995 ha inserito un primo correttivo ponendo al pubblico ministero l’obbligo di presentare al giudice tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate (art. 291 co. 1). L’effetto di tale correttivo sarebbe quello di ampliare le conoscenze del giudice quando questi deve valutare l’esistenza delle condizioni e dei presupposti della misura richiesta. Il pubblico ministero, tuttavia, deve compiere una valutazione che risulta piuttosto complicata da formulare prima di aver conosciuto la tesi difensiva, a maggior ragione se si considera che questi ha l’onere di dimostrare la fondatezza di un addebito nel momento in cui chiede un provvedimento al giudice.
La l. n. 332, peraltro, abolendo il comma 1 bis dell’art. 291, ha indirettamente sancito che il giudice non può applicare una misura più grave di quella richiesta dal pubblico ministero.
La l. n. 332 del 1995 ha introdotto un secondo correttivo inerente il potere decisionale del giudice: mentre in precedenza la motivazione di quest’ultimo poteva anche essere sommaria, alla luce della riforma essa deve essere esaustiva e deve rispettare una struttura prefissata (art. 292 co. 2):
- il giudice deve precisare (lett. c):
- le specifiche esigenze cautelari;
- gli specifici indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza;
- il giudice, se applica la custodia in carcere, deve spiegare perché tale misura non può essere sostituita con altre meno gravi (lett. c bis) e perché ritiene:
- rilevanti gli elementi a carico;
- non rilevanti gli elementi a difesa raccolti dal pubblico ministero e dal difensore.
Ai sensi dell’art. 291 co. 2 ter, l’ordinanza è nulla se non contiene la valutazione degli elementi a carico ed a favore dell’imputato.
Il giudice, in conclusione, deve motivare l’applicazione della misura cautelare secondo cadenze simili a quelle della sentenza dibattimentale.
L’ordinanza che dispone la custodia cautelare viene eseguita, su incarico del pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria che consegna all’imputato copia del provvedimento, con avvertimento della facoltà di nominare un difensore di fiducia (art. 293 co. 1). L’ordinanza che dispone una misura non custodiale, al contrario, viene notificata all’imputato (co. 2).
Quando non è possibile eseguire l’ordinanza che dispone una qualsiasi misura perché il destinatario non è rintracciato, l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria redige un verbale di vane ricerche indicando le indagini svolte (art. 295). Tale verbale deve essere trasmetto al giudice che ha emanato il provvedimento, il quale, se ritiene le ricerche esaurienti, dichiara lo stato di latitanza di colui che volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o ad un ordine con cui si dispone la carcerazione (art. 296).