L’intervento principale prevede che un terzo possa intervenire in un processo pendente fra altre persone per far valere un proprio diritto nei confronti di tutte le parti, quando tra le domande che si propongono vi è connessione per l’oggetto o per il titolo.

Questo terzo fa valere un autonomo diritto che potrebbe essere proposto in un autonomo processo che è incompatibile rispetto a tutte le parti. Pertanto l’intervento principale determina sempre un cumulo oggettivo di cause, oltre che un cumulo soggettivo.

Esempi: Tizio agisce nei confronti di Caio per far accertare il suo diritto di proprietà su un fondo. Interviene Sempronio affermando di essere lui il proprietario del fondo per averlo usucapito (Sempronio potrebbe far valere il suo diritto anche in un autonomo processo). Il diritto di Sempronio è incompatibile sia con la posizione di Tizio che con la posizione di Caio.

Tizio da una somma a mutuo a Caio e poi muore, erede è Sempronio. Tizio però istituisce un legato nei confronti di Mevio. Questi agisce nei confronti di Caio chiedendo la restituzione della somma data a mutuo. Sempronio interviene nel processo affermando di essere egli il titolare del diritto di credito poiché il legato è nullo.

L’intervento litisconsortile (o adesivo autonomo) è previsto dal primo comma dell’art. 105 c.p.c. che afferma che “ciascuno può intervenire in un processo che riguarda altre persone per far valere, nei confronti di alcune delle parti, un diritto connesso per l’oggetto o per il titolo a quello controverso”.

Differenza fra intervento principale ed intervento litisconsortile:

– Nell’intervento principale si fa valere un diritto autonomo ed incompatibile con quello controverso (quindi vi è un’incompatibilità con la posizione di tutte le parti);
– Nell’intervento litiscosortile l’interveniente fa valere un diritto autonomo ma compatibile con la posizione di alcuna delle parti (il diritto viene fatto valere nei confronti soltanto di alcuna delle parti). Vi è un ampliamento della materia del contendere, vi è un cumulo oggettivo di cause oltre che un cumulo soggettivo (vi sono più domande pendenti su questioni sostanziali).
Questo istituto trova applicazione nelle stesse ipotesi in cui può aversi un litisconsorzio facoltativo. L’art. 105.1 c.p.c. non fa però riferimento all’ipotesi della dipendenza delle domanda dalla risoluzione di identiche questioni, ciò nonostante si ritiene che un intervento litisconsortile possa avvenire anche nelle ipotesi in cui potrebbe aver luogo litisconsorzio facoltativo per connessione impropria (connessione per la dipendenza dalla risoluzione di identiche questioni). Vi è una particolarità che consiste nel fatto che qui il litisconsorzio non è originario, come il litisconsorzio facoltativo, ma è sopravvenuto.

Qui, la stessa situazione che si sarebbe potuta creare con l’intervento facoltativo, avviene in seguito all’intervento volontario di un terzo. Questo determina il fatto che la domanda può essere di segno invertito rispetto quella che l’attore avrebbe potuto proporre nel litisconsorzio facoltativo.

Esempio: Tizio da una somma a mutuo a Caio che poi muore. Eredi pro quota di Caio sono Sempronio e Mevio. Tizio decide di instaurare un litisconsorzio facoltativo, quindi agisce con lo stesso atto di citazione nei confronti di Sempronio e di Mevio. Se invece decide di agire solo contro Sempronio, Mevio potrebbe fare intervento litisconsortile chiedendo l’accertamento negativo del diritto di credito di Tizio.

Mevio qui è titolare di un diritto che è connesso per il titolo con quello controverso.

L’intervento adesivo (o intervento adesivo dipendente) è previsto dal 2 comma dell’art. 105 c.p.c. che afferma che il terzo “può altresì intervenire per far valere le ragioni di una delle parti, quando vi ha un proprio interesse”.

Il concetto di “interesse” determina l’ambito di applicazione dell’istituto. È pacifico che l’interesse debba essere giuridico, non può essere un interesse di mero fatto (es. interesse morale come il desiderio di aiutare un amico). Bisogna distinguere:

– Sicuramente interesse giuridicamente rilevante si ha nel caso in cui la sentenza pronunciata nel processo produrrebbe effetti nei confronti di un terzo:
La regola generale prevede che la sentenza pronunciata in un processo non produce effetti nei confronti di terzi (di chi non ha partecipato al processo). L’art. 2909 cc. disciplina la cosa giudicata materiale e afferma che “L’accertamento, contenuto nella sentenza passata in giudicato, fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa”. Gli eredi sono coloro che sono divenuti titolari del diritto controverso necessariamente dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Eredi ed aventi causa sono già soggetti terzi che non hanno partecipato al processo, pertanto è già un’eccezione alla regola secondo cui la sentenza non produce effetti nei confronti di terzi.
Le ipotesi di soggetti terzi, nei cui confronti si producono gli effetti della sentenza, sono ipotesi eccezionali, e come tali non soggette ad estensione analogica.

Nel concetto di avente causa rientra colui che ha acquistato il diritto, e questo può avvenire con atto inter vivos o mortis causa (nel caso di legato), ma anche coloro che sono titolari di un diritto dipendente (es. di un diritto di usufrutto rispetto al diritto di proprietà). Vi è stato chi in passato ha sostenuto che tutti gli aventi causa, indipendentemente da quando fossero divenuti tali, subissero gli effetti della sentenza (quindi erano aventi causa non solo quelli che erano divenuti tali dopo il passaggio in giudicato, ma anche quelli divenuti tali prima del passaggio in giudicato o addirittura prima del processo). In questo modo la cosa giudicata avrebbe operato nei confronti di tutti gli aventi causa. La conseguenza era quella di ammettere all’intervento adesivo tutti i titolari di rapporti dipendenti. Questa opinione poi è stata superata negli anni ’70 poiché si è messo in rilievo il fatto che, siccome l’art. 24 Cost. garantisce il diritto di difesa, estendere la cosa giudicata nei confronti di tutti gli aventi causa avrebbe violato tale diritto dei terzi che non hanno partecipato al processo.

Ciò nonostante la giurisprudenza ammette il titolare del rapporto dipendente all’intervento adesivo. Si tratta di un residuo della precedente opinione, che una volta era giustificata dall’estensione generalizzata della cosa giudicata nei confronti dei terzi titolari di rapporti dipendenti, mentre adesso non è più giustificata alla luce dell’art. 2909 cc. così come interpretato alla luce della Costituzione;

Vi sono dei casi in qui la cosa giudicata opera nei confronti di terzi, ed uno di questi è costituito dall’art. 1595 cc. che al terzo comma prevede che “senza pregiudizio delle ragioni del sub conduttore nei confronti del sublocatore, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ha effetto anche nei confronti del sub conduttore, e la sentenza pronunciata tra conduttore e locatore opera anche contro il sub conduttore”. In questa ipotesi la cosa giudicata materiale opera anche contro il sub conduttore. In questo caso il terzo sicuramente ha un interesse giuridico a fare intervento adesivo.
“senza pregiudizio delle ragioni del sub conduttore” significa che il sub conduttore potrà chiedere il risarcimento dei danni nei confronti del sub locatore.
Quindi ogniqualvolta vi è una norma che estende la cosa giudicata nei confronti di un terzo, questo terzo è legittimato a fare intervento adesivo.

La teoria dei subcontratti afferma che la stessa disciplina prevista per la sub locazione trova applicazione in tutte le ipotesi di sub contratto (es. sub mandato, sub comodato, sub deposito etc.). Distingue, con riferimento ai titolari dei rapporti dipendenti, due ipotesi:

Dipendenza permanente: si ha nelle ipotesi dei subcontratti. Tutte le vicende del rapporto principale si riflettono sul sub rapporto. La cosa giudicata che pronuncia sul rapporto principale opera sempre rispetto al subcontratto (di dice che la dipendenza è permanente in quanto si estende ai subcontratti la disciplina prevista espressamente per la sublocazione);
Dipendenza istantanea (o genetica): non opera l’estensione della cosa giudicata al titolare del rapporto dipendete.
Esempio: Tizio, proprietario, costituisce un diritto di usufrutto a favore di Caio. Sempronio agisce rivendicando il bene e affermando di essere egli il proprietario. Il giudice accoglie la domanda. La sentenza non può essere fatta valere nei confronti di Caio.

La critica mossa a questa teoria sta nel fatto che si fonda su un’unica disposizione che deve configurarsi come eccezionale rispetto alla regola dell’art. 2909 cc. pertanto non è ammissibile l’estensione per via analogica di una disciplina eccezionale.

Comunque si può notare come vi sia stata una tendenza ad estendere la cosa giudicata anche al di là delle parti del processo. Questa tendenza si verifica perché attraverso l’estensione della cosa giudicata ai terzi si ottiene uno degli obiettivi che un ordinamento dottrinario attribuisce il processo: quello di realizzare il coordinamento delle situazioni sostanziali. La stessa ratio ispira anche la disciplina degli interventi: si ammette all’intervento titolari di situazioni sostanziali variamente connesse a quella controversa, attraverso gli interventi si ottiene una disciplina delle situazioni sostanziali armoniosa e pertanto si evitano i contrasti logici, oltre che pratici, fra giudicati. Ecco perché vi è questa tendenza ad estendere la cosa giudicata, questo concetto ispira poi certe interpretazioni dirette ad ampliare gli ambiti degli interventi. Il prezzo è comunque un appesantimento del processo, quindi un rallentamento;

Altra ipotesi in cui un terzo può fare intervento adesivo è l’art. 1485 cc. (è un efficacia di grado minore) che prevede che se un terzo agisce in giudizio rivendicando il bene venduto, il compratore deve chiamare in causa il venditore (è un onere), altrimenti, se viene accolta la domanda e poi il compratore agisce chiedendo il risarcimento del danno per l’evizione subita, il venditore potrebbe difendersi dimostrando che vi erano ragioni sufficienti nel primo processo per respingere la domanda del terzo. La sentenza pronunciata nel primo processo ha una qualche efficacia nei confronti del venditore rimasto estraneo al processo, in quanto comporta un inversione dell’onere della prova. Poiché questo venditore è titolare di una situazione dipendete (l’esistenza del suo obbligo dipende dall’esistenza dei diritti vantati dal terzo sul bene), ecco che sicuramente avrà un interesse giuridico tale che lo legittima a fare intervento adesivo a favore del compratore;
– Caso controverso è quello del creditore (buona parte della dottrina lo ammette): il creditore può fare intervento adesivo a favore del proprio debitore affinché siano conservate le sue ragioni?
Esempio: Tizio è creditore di Caio che è proprietario di un bene immobile. Sempronio agisce in rivendica affermando di averlo usucapito. Tizio ha interesse a che il patrimonio del proprio creditore rimanga integro (il debitore risponde delle obbligazioni con tutto il proprio patrimonio, presente e futuro).
La giurisprudenza ritiene che non abbia la possibilità di fare intervento adesivo in quanto il suo interesse è di mero fatto poiché il suo diritto sostanziale non perisce a causa dell’incapienza del debitore (il debitore risponde anche con il suo patrimonio futuro). Si replica affermando che non si può dire che l’interesse sia giuridico solo quando l’interesse del terzo dipenda dal diritto del terzo, un interesse è giuridico quando è tutelato dall’ordinamento. Allora bisogna verificare se esistono norme che tutelano l’interesse del creditore:
Azione surrogatoria;
L’art. 404.2 c.p.c. ammette il creditore all’opposizione di terzo revocatoria;
L’art. 344 c.p.c., che disciplina l’intervento in appello, ammette coloro che sarebbero legittimati ad effettuare opposizione di terzo a norma dell’art. 404 c.p.c. (senza distinguere fra primo e secondo comma). In questa ipotesi sono compresi anche quelli che potrebbero fare opposizione di terzo revocatoria ai sensi dell’art. 404.2 c.p.c. (quindi anche il creditore).

Allora, visto che vi sono delle norme che tutelano il creditore, si dovrebbe ammetterlo all’intervento adesivo. La giurisprudenza però la pensa diversamente.
Vi sono ipotesi in cui un terzo potrebbe fare sia l’intervento adesivo che l’intervento litisconsortile.

Esempio: Tizio dà a mutuo una somma a Caio e poi stipula una fideiussione con Sempronio. Nel caso in cui l’adempimento avvenga ad opera di Sempronio, esso ha il diritto di regresso nei confronti di Caio. Tizio può agire nei confronti di Sempronio o Caio, ma deicide di agire solo verso Sempronio. Caio potrebbe effettuare un intervento litisconsortile proponendo una domanda di accertamento negativo del credito nei confronti di Tizio. (Caio è anche colui nei cui confronti Sempronio può esercitare il diritto di regresso, quindi se viene accolta la domanda di Tizio sorge nei confronti di Caio un diritto di regresso). Caio, in quanto titolare di una situazione sostanziale dipendente da quella controversa, potrebbe fare intervento adesivo (secondo l’opinione prevalente).

Dinnanzi a questa situazione, l’opinione prevalente ammette che il soggetto possa fare l’una o l’altra forma d’intervento, tuttavia sarebbe preferibile accogliere l’opinione restrittiva ed escludere la possibilità di fare intervento adesivo. Chi fa intervento adesivo propone una domanda di accertamento avente ad oggetto una situazione sostanziale dedotta in giudizio dall’attore (non si ha nessun ampliamento della materia del contendere). L’interveniente adesivo è un legittimato straordinario ad agire perché può proporre domanda di accertamento in un processo già pendente, non potrebbe mai iniziare un processo in ordine al rapporto giuridico altrui (non è titolare della situazione controversa). Essendo un legittimato straordinario ad agire, opera la regola generale che ammette un soggetto ad agire in nome proprio un rapporto giuridico altrui solo nelle ipotesi previste espressamente dalla legge (sono ipotesi eccezionali). Allora è giusto adottare un’interpretazione restrittiva dell’ambito di queste ipotesi eccezionali e negare la possibilità di effettuare anche intervento adesivo.

L’interveniente adesivo, in quanto proponente di una domanda ed in quanto avente la qualità di parte, nel momento in cui interviene subisce poi l’efficacia della cosa giudicata materiale.

Ampio orientamento attribuisce all’interveniente adesivo poteri accessori rispetto quelli delle parti (poteri minori). Vi è un duplice fondamento di questa posizione:

– Da un lato si evidenzia che il terzo non è titolare del rapporto controverso, di conseguenza non può disporne attraverso il processo. Questo comporta una pluralità di conseguenze:
Non sono ammesse le prove legali di parte:

Confessione: né spontanea, né provocata;
Giuramento: né deferirlo (quando si chiede ad una parte di giurare alla controparte), né riferirlo (quando la parte a cui è deferito lo riferisce all’altra parte).
Non può allegare fatti costitutivi del diritto sostanziale, né fatti a fondamento di eccezioni in senso stretto (secondo altra opinione neppure potrebbe allegare fatti a fondamento di eccezione in senso lato);
Non può rinunciare agli atti del giudizio.

La rinuncia agli atti del giudizio è la rinuncia alla pronuncia di una sentenza di merito, quindi il processo termina con un provvedimento di estinzione. Talvolta la legge prevede che la rinuncia debba essere accettata quando la controparte ha un interesse alla prosecuzione della causa (art. 306 c.p.c.). Si nega non solo che l’interveniente adesivo possa formulare la rinuncia agli atti del giudizio, ma anche che sia necessaria la sua accettazione (si vuole evitare che il processo si estingue per iniziativa dell’interveniente adesivo, oppure che il processo non si estingua per volontà dell’interveniente adesivo);
L’opinione prevalente nega poi che abbia un potere d’impugnazione in quanto assimila la proposizione d’impugnazione alla proposizione di una domanda. Seconda questa opinione proporre una domanda è un atto di disposizione del diritto sostanziale, ecco perché solo il titolare del diritto può proporre una domanda.

In realtà questa opinione è molto criticabile poiché non è vero che la proposizione dell’impugnazione costituisce la proposizione di una nuova domanda: il processo è pendente dalla proposizione della domanda originaria e quando viene proposta l’impugnazione è lo stesso processo che continua a pendere, non muta il suo oggetto e gli effetti sostanziali e processuali sono quelli che si producono dal momento della prima notificazione della citazione, non dal momento della citazione dell’appello;
– Dall’altro si assimila l’interveniente adesivo alla figura del pubblico ministero interveniente (art. 70 c.p.c.):
Nelle cause in cui avrebbe potuto lui stesso proporre la domanda;
Nelle cause relative allo stato o capacità delle persone;
Nelle cause matrimoniali comprese quelle di separazione fra coniugi;
Negli altri casi previste dalle legge.

L’intervento del pubblico ministero pertanto va distinto in due categorie, e diversi sono i poteri a seconda del tipo d’intervento: l’art. 72 c.p.c. afferma che quando il pubblico ministero interviene nelle cause che lui stesso avrebbe potuto proporre (n. 1), ha gli stessi poteri che spettano alle parte, negli altri casi di intervento necessario (n. 2, 3 e 4) ha dei poteri minori (può produrre documenti, proporre mezzi di prova e prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalla parti).

Il potere d’impugnazione è previsto solo nelle cause matrimoniali, escluse le cause di separazione fra coniugi.
Questa opinione è criticata per due motivi:
– Perché configura la domanda come un atto di disposizione di diritto sostanziale: invece sono ammesse tutte le domande di accertamento negativo con cui uno non dispone di nulla.
– Perché le ragioni che stanno alla base dell’intervento del pubblico ministero sono ragioni di natura pubblicistica che nulla hanno a vedere con l’interveniente adesivo.
Interpretato in questo modo l’istituto i casi di intervento adesivo si riducono alle ipotesi in cui la sentenza opererebbe con efficacia di cosa giudicata nei confronti del terzo titolare del rapporto dipendente.

Disciplina delle preclusioni con riguardo l’intervento
L’intervento volontario del terzo è disciplinato dall’art. 268 c.p.c. che ammette che l’intervento possa essere fatto fino alla precisazione delle conclusioni.
Prima dell’entrata in vigore della L. 353/’90 (nel ’95) la disciplina era analoga: si faceva riferimento all’intervento fino alla rimessione della causa al collegio. Quando è stata introdotto la figura del tribunale in composizione monocratica, allora si è fatto riferimento non più alla rimessione della causa al collegio ma all’udienza di precisazione delle conclusioni (il che è la stessa cosa perché non appena le parti hanno precisato le conclusioni il giudice rimette la causa a decisione).

Per quanto riguarda i poteri delle parti si prevedeva che non potessero essere esercitati poteri processuali che non potevano più essere esercitati dalla parti. Questa disciplina è rimasta identica (anche oggi l’art. 268 c.p.c. afferma che chi interviene non può esercitare poteri processuali che non spettino ad alcuna delle parti).

È cambiato il sistema delle preclusioni: prima della L. 353/’90 non esistevano preclusioni per i poteri delle parti (potevano allegare fatti, dedurre mezzi di prova e chiedere l’ammissione di mezzi di prova fino alla rimessione della causa al collegio). Il legislatore ha fatto una scelta a sfavore dell’intervento volontario, c’è addirittura chi ha parlato di abrogazione tacita dell’intervento volontario. Però appaiono meritevoli di approvazione quelle interpretazioni secondo cui se si ammette un soggetto ad effettuare l’intervento bisogna anche riconoscergli i poteri necessari a far valere le ragioni che lo hanno convinto a dedurre quel diritto.

 

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