La recidiva sta ad individuare la condizione personale di chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro (art. 99 co. 1) e viene quindi dichiarato recidivo dal giudice. Per aversi recidiva, tuttavia, non basta avere commesso un precedente delitto non colposo, ma occorre che questo sia già stato accertato con una sentenza definitiva di condanna.

Poiché la recidiva rientra tra i cosiddetti effetti penali della condanna, delle precedenti condanne si tiene conto (art. 106) anche se per esse è intervenuta una causa estintiva, soltanto della punibilità (es. prescrizione della pena), ma non, invece, se sono intervenute cause estintive di tutti gli effetti penali (es. riabilitazione).

Sebbene il suo fondamento sia sempre stato una tematica molto discussa, il fenomeno della recidiva ha cominciato ad essere valorizzato solo con le concezioni soggettivistiche del diritto penale. In un diritto penale della volontà, infatti, essa esprime una colpevolezza d’inclinazione, che giustifica una maggiore retribuzione punitiva. In un diritto penale della pericolosità, invece, il recidivismo viene in considerazione quale indice per la classificazione del soggetto in una tipologia criminologica caratterizzata dall’abitualità al delitto e, quindi, legittima l’adozione di misure di sicurezza adeguate alla maggiore pericolosità del soggetto.

Nel codice vigente, la recidiva appartiene alla teoria del reo, e non del reato. Essa, infatti, non rientra nella colpevolezza, costituendo soltanto un indice della maggior capacità a delinquere del soggetto. L’art. 99 prevede quattro forme di recidiva:

  • la semplice, per la quale basta la commissione di un delitto non colposo dopo la condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo.
  • l’aggravata, che si ha quando il nuovo delitto non colposo è della stessa indole (cosiddetta recidiva specifica), è stato commesso nei cinque anni dalla condotta precedente (cosiddetta recidiva infraquinquiennale) o è stato posto in essere durante o dopo l’esecuzione della pena (cosiddetta recidiva vera) oppure durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena (cosiddetta recidiva finta).
  • la pluriaggravata, che si ha quando concorrono più circostanze fra quelle sopraindicate.
  • la reiterata, che si ha quando il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo.

L’art. 101 precisa che agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, per la natura dei fatti che li costituiscono (es. truffa e insolvenza fraudolenta) o dei motivi che li determinato (es. danneggiamento e omicidio per vendetta), presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni . Il concetto di reati della stessa indole, comunque, è assai importante, perché rileva ai fini, oltre che della recidiva, anche dell’abitualità (art. 102) e, quindi, è elemento del giudizio sia di responsabilità sia di pericolosità.

Quanto agli effetti, la recidiva come tale è considerata dal codice quale elemento di maggior capacità a delinquere, ma non anche quale fattispecie di pericolosità. Essa, quindi, non comporta di per sé l’applicazione di una misura di sicurezza, ma soltanto un aumento di pena che è:

  • nella recidiva semplice, di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto colposo.
  • nella recidiva aggravata, fino alla metà.
  • nella recidiva pluriaggravata, della metà.
  • nella recidiva reiterata, della metà, se la preesistente recidiva è semplice, o di due terzi, se è aggravata.

In antitesi con la successiva l. del 2005, il d.l. del 1974 inasprì fortemente gli effetti penali della recidiva aggravata, pluriaggravata e reiterata. Tale decreto, tuttavia, al fine di evitare che la precedente condanna ad una pena di modesta entità potesse comportare un aumento anche consistente della pena per il nuovo delitto non colposo, introdusse il limite generale per cui in nessun caso l’aumento della pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo (art. 99 co. 4). La vera innovazione del decreto, comunque, consiste nella generalizzata facoltatività dell’aumento di pena, che prima, al contrario, era obbligatorio (con la l. del 2005 è tornato obbligatorio per i gravi delitti dell’art. 407 co. 2 del c.p.p.).

Tale riforma, tuttavia, ha posto due principali problemi:

  • quello dei criteri-guida della discrezionalità del giudice, dato che si è passati da una definizione formale ad una definizione sostanziale di recidività. Con la riforma, infatti, la preesistente condanna non esaurisce più la nozione di recidività, rappresentando soltanto un presupposto formale sul quale deve aggiungersi un requisito centrale, che il giudice deve accertare in concreto, ma che la l. del 1974 non ha saputo o voluto indicare.

La sentita esigenza di riforma, quindi, non è stata soddisfatta dal d.l. del 1974, che ha cercato di rimediare all’estrema generalizzazione della recidiva del codice Rocco con l’estrema discrezionalità del giudice, prevedendo la facoltatività, la genericità e la perpetuità della recidiva.

  • quello relativo alla natura giuridica della recidiva, a seconda che essa rappresenti una circostanza in senso tecnico o un semplice elemento di commisurazione della pena del tipo di quelli di cui all’art. 133.

Sulla tesi della circostanza è rimasta ferma la giurisprudenza e parte della dottrina, per le quali è conseguentemente obbligatoria la contestazione processuale della recidiva, possibile il bilanciamento con altre circostanze e necessaria la conoscibilità della recidiva medesima. Per l’opposta tesi (Mantovani), al contrario, le riforme del 1974 hanno ulteriormente rafforzato l’irriducibilità della recidiva a circostanza, nonostante la classificazione in questo senso del codice, la quale, comunque, non risulta essere vincolante.

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