Nel rapporto pubblicato dal comitato governativo britannico Wolfenden nel 1957 si propose la depenalizzazione degli atti di omosessualità tra adulti consenzienti allora previsti come reati, sul rilievo che il diritto penale non dovesse ingerirsi nella vita privata degli individui se non per quanti necessario. Si erano manifestate due posizioni distinte:

1- Per il giurista Devlin il diritto penale avrebbe dovuto anche regolare la morale privata

2- Per il filosofo del diritto Hart il diritto penale doveva servire alla punizione di fatti dannosi, restando estraneo alla finalità del rafforzamento morale.

La problematicità della questione emerge laddove nel medesimo contesto si rileva l’incapacità di fornire criteri per l’individuazione del bene giuridico così univoci da poter vincolare il legislatore nelle scelte degli oggetti tutelabili. Anche in altri ordinamenti si è provveduto in tempi recenti a depenalizzare l’omosessualità. La questione però non è chiusa: può menzionarsi l’intervento della commissione dei diritti dell’uomo delle nazioni unite verso la Tasmania che penalizza. L’intervento ha dichiarato tale disciplina illegale.

In merito alla distinzione tra Devlin e Hart, coinvolge la difficoltà di tracciare una linea divisoria tra morale privata e interessi di tutela della società, visti anche i dubbi relativi alla capacità della sanzione penale di controllare la morale privata. La penalizzazione dell’immoralità determinerà dunque effetti criminogeni o comunque negativi di vario tipo. Dalla constatazione che l’area del penalmente rilevante non coincide con quella del moralmente riprovabile si è soliti desumere il carattere di frammentarietà del diritto penale, che assurge a principio nel senso che la consapevolezza della distanza dalla realtà deve pervadere il quotidiano operare dei legislatori e giudici.

Sotto il profilo della frammentarietà il diritto penale si differenzia nettamente dalle scienze empiriche: l’oggetto della criminologia aspira ad allargarsi ad una realtà illimitata e copre l’oggetto del diritto penale e della morale, ma soprattutto copre le modalità e le ragioni della frammentarietà del diritto penale (cerca di mettere in discussione come e perché questo selezioni l’ambito di applicazione delle norme). Un tale scarto di visuale tra piano empirico e normativo può anche illuminare alcuni snodi del dibattito sul cosiddetto concetto sostanziale di reato.

Di tale ricerca in ambito penalistico è stato decretato il fallimento per la genericità e vaghezza di concetti naturali di reato del tipo di quello congegnato da Garofalo=lesione di quella parte del senso morale che consiste nei sentimenti altruistici, la pietà, la probità..) o per il carattere di formula vuota. La questione dei rapporti tra diritto e morale non si lascia esaurire entro la pur condivisibile prospettiva di una separazione basata sul principio di laicità del diritto penale. I due ambiti manifestano in realtà zone anche nevralgiche di sovrapposizione o interazione.

Un ordinamento penale che lasci privi di tutela o di tutela adeguata beni sentiti come primordiali mentre protegge in modo oltranzista beni di valore assai inferiore perde la sua capacità di orientamento e di guida e si pervertisce sino a diventare uno dei principali fattori criminogeni. Quando si parla ultimamente della legittimazione o delegittimazione delle agenzie del controllo sociale a contrastare aree di grave ed estesa criminalità che lambiscono o penetrano il mondo della politica, si identifica una corrispondenza tra l’azione da esse perseguita e le valutazioni dell’opinione pubblica, da cui spesso dipendono l’efficacia e la credibilità del loro intervento.

Inoltre la sfiducia dei cittadini nei confronti dell’integrità morale del potere politico e giudiziario può determinare il mancato rispetto della legge. Un ulteriore profilo di interferenza destinato a condizionare l’applicazione del diritto penale è quello che riguarda la conoscenza della legge penale e con esso l’ambito di rilevanza scusante attribuibile all’errore sulla legge penale.

Rif.to art. 5 cost : nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale. La corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità nella parte in cui non si esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile con motivazione che il diritto penale necessita di norme non numerose, che devono essere chiaramente formulate e dirette alla tutela di valori almeno di rilievo costituzionale e tali da essere percepite anche in funzione di norme extrapenali, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare.

Un precetto penale ha valore non per quello che è ma per come appare ai consociati e la conformità dell’apparenza all’effettivo contenuto deve essere garantita dallo Stato. L’oggettiva impossibilità di conoscenza costituisce dunque un altro limite della personale responsabilità penale. Assumono grande interesse le possibili sinergie tra codici etici e normative statuali. Si esclude che i codici etici costituiscano una superflua duplicazione della legge anzi, servono a promuoverla.

 

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