Secondo l’art. 56 comma 1° si a tentativo se l’azione non si compie o l’evento non si verifica, bisogna quindi, distinguere il tentativo compiuto e il tentativo incompiuto.

A differenza del codice Zanardelli, l’idoneità è riferita all’atto e non al mezzo.

  • Mezzo è lo strumento utilizzato per commettere un delitto
  • Atto è l’impiego del mezzo

Il requisito dell’idoneità ha natura oggettiva, tuttavia non sempre si assiste a una convergenza di vedute sul suo contenuto.

In passato si era soliti risolvere il concetto di idoneità in quello di efficienza causale: gli atti realizzati dovrebbero essere capaci di cagionare l’evento del rato presi di mira. È da obiettare che l’idoneità a produrre l’evento non può essere intesa in senso strettamente causale, per l’ovvia ragione che, mancando nel delitto tentato l’evento del corrispondente delitto consumato, viene a mancate uno dei termini necessari all’esistenza del nesso eziologico.

Inoltre, se fosse adottabile un’ottica di tipo causale, il giudizio di idoneità dovrebbe compiersi ex post: ma secondo una valutazione ex post non si avrebbe mai delitto tentato punibile proprio perché il mancato verificarsi dell’evento costituirebbe irrefutabile riprova dell’inidoneità degli atti compiuti a cagionarlo! L’utilizzazione di un concetto di idoneità in chiave causale presupporrebbe che tutti i reati presentino nella loro struttura un evento naturalistico, ma non è così nei reati di mera condotta: quindi l’idoneità va riferito alla commissione del delitto che di volta in volta viene in questione.

Oggi, si utilizza il criterio della prognosi postuma, e si concorda nel ritenere che il parametro di accertamento dell’idoneità consiste in un giudizio ex ante e in concreto. Il giudice quindi, collocandosi idealmente nella stessa posizione dell’agente all’inizio dell’attività criminosa, deve accertare se gli atti erano in grado, tenuto conto delle circostanze concrete del caso, di sfociare nella commissione del reato.

Questo criterio viene detto “della prognosi postuma” in quanto il giudizio prognostico viene effettuato sì dopo la commissione degli atti di tentativo, ma ponendosi con la mente al momento iniziale dell’attività delittuosa: solo questa prognosi consente, di accertare se l’agente in concreto, sia in possesso di conoscenze ulteriori rispetto a quelle dell’uomo medio (es. la somministrazione di zucchero a una persona, ex ante in base a valutazioni medie, non può certo risultare idonea a cagionare la morte; ma il giudizio muta se si accerta che il reo era a conoscenza del grave stato diabetico della vittima designata).

Bisogna precisare se il criterio della prognosi postuma debba essere applicato effettuando il giudizio di idoneità su una base parziale o totale. È attestato nel primo senso l’orientamento dominante: il giudizio di idoneità è a base parziale in quanto tiene conto solo delle circostanze conosciute o conoscibili, al momento dell’azione, da un uomo avveduto pensato al posto dell’agente concreto: mentre esso non tiene conto delle circostanze eccezionali oggettivamente presenti sin dall’inizio, ma conosciute dopo. Se si propende per un giudizio di idoneità su base totale, per accertare l’idoneità dell’azione, occorre prendere in esame tutte le circostanze già presenti al momento del fatto, anche se conosciute in un momento successivo.

 

Il grado di sufficienza dell’idoneità

Non c’è unitarietà di vedute circa il grado o livello di idoneità necessario ai fini della configurazione del tentativo punibile. Il termine idoneità potrebbe essere sia identificato con la semplice possibilità che con la probabilità di verificazione del risultato delittuoso preso di mira. Però, se il fondamento sostanziale della punibilità del tentativo va ravvisato nell’esigenza di impedire la messa in pericolo del bene giuridico, coerenza impone di escludere che il grado di sufficienza dell’idoneità coincida con la semplice non impossibilità di consumazione del fatto delittuoso.

Invero, posto che il pericolo presuppone la probabilità di verificazione dell’evento lesivo, per poter sostenere che gli atti di tentativo realizzati pongono in pericolo il bene protetto, è necessario accertarne la rilevante attitudine a conseguire l’obiettivo. Quindi la loro idoneità deve essere più vicina alla “probabilità” piuttosto che alla “mera non impossibilità”.

 

Caso

Una domestica, figlia di un contadino friulano, in occasione della visita settimanale del genitore verso cui nutre motivi di rancore, versa nella botte di vino dosi letali di fosfuro di zinco al fine di procurarne la morte. Il contadino spilla vino dalla botte e ne ingerisce alcuni sorsi; accorgendosi però del colore torbido e del gusto diverso del liquido, provvede a travasarlo in altro recipiente per far riacquistare a esso l’originaria limpidezza; in conseguenza della quantità di vino già ingerita il contadino accuserà solo dolori allo stomaco.

Ai fini dell’accertamento dell’idoneità del tentato avvelenamento, è quasi superfluo osservare che il propinare dosi letali di zinco versate in una botte di vino è mezzo idoneo a cagionare la morte addirittura con probabilità vicina alla certezza. Inoltre il semplice intorbidamento del liquido e la lieve alterazione nel gusto non sono circostanze così allarmanti da indurre a (tramite una valutazione ex ante) ingenerare ragionevoli sospetti di avvelenamento. Per cui tenuto conto delle circostanze concrete, le possibilità di successo dell’azione omicida sono almeno equivalenti alle possibilità di insuccesso.

Lascia un commento