Ulteriore aspetto di critica in relazione alla nuova fattispecie di “violenza sessuale” è il trattamento sanzionatorio che la caratterizza, con riferimento all’attenuante di cui all’art. 609 bis III comma c.p.: nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i 2/3.

La proposta di legge n. 2576, testo base della riforma, già prevedeva che il delitto di violenza sessuale fosse punito con reclusione da 5 a 10 anni. C’è stato un inasprimento del trattamento sanzionatorio rispetto alla precedente fattispecie di violenza carnale (art. 519), con il passaggio del minimo della pena da tre a cinque anni. L’esigenza era quella di stigmatizzare in senso fortemente negativo le condotte di aggressione sessuale. Tuttavia un minimo edittale così elevato avrebbe necessariamente posto il giudice di fronte alla alternativa di applicare pene sproporzionate a fatti di contenuto lesivo anche molto lieve, ovvero di porre mano ad una interpretazione riduttiva del concetto di atto sessuale così da escluderne le aggressioni sessuali di minore gravità.

Si spiegava in questa prospettiva la previsione di una attenuante indefinita che stabiliva che per i casi di lieve entità la diminuzione della pena era sino alla metà. Su tale disposizione si pronunciò il 18 luglio 1995 la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati esprimendo parere favorevole e ritenne non censurabili i minimi di pena stabiliti, ma rappresentò l’opportunità di riformulare l’ultimo periodo dell’art. 609 bis, attenuando il potere discrezionale del giudice nella valutazione della lieve entità del fatto. La commissione avrebbe dovuto spingere il legislatore a predefinire in maniera più puntuale i criteri in base a cui valutare la lieve entità del fatto. Ma niente di tutti ciò si è verificato. La sostituzione della formula “nei casi di lieve entità” con quella “casi di minore gravità” è solo una semplice modifica di carattere terminologico e non risolve il problema dell’indeterminatezza. Oltretutto si è accompagnato un ulteriore ampliamento della discrezionalità giudiziaria per la commisurazione della pena. Il risultato finale di queste manipolazioni è paradossale:

l’inasprimento generalizzato del trattamento sanzionatorio, sbandierato come uno dei tratti salienti, resta solo sulla carta. La pena può essere infatti irrogata in misura inferiore rispetto alla comminatoria edittale del precedente art. 521 c.p.. Inoltre, data l’avvenuta fusione in un’unica norma incriminatrice delle precedenti ipotesi agli artt. 519 e 521, l’attenuante vale anche per le ipotesi prima qualificabili come violenza carnale. D’altra parte in dottrina si è sostenuto che non è possibile, in sede di applicazione dell’attenuante, riprodurre la distinzione tra congiunzione carnale e atti di libidine, e che pertanto la minore gravità va desunta dall’insieme delle circostanze del caso concreto, cioè tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa. Quindi per giudicare la minore gravità bisogna tener conto non della quantità di violenza arrecata, ma della qualità dell’atto compiuto, desumendola dall’intero contesto.

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