Una prima tipologia riguarda le azioni che si ritengono tipiche di qualsiasi forma di tale esperienza religiosa. Esse sono:

a)      attività di natura simbolica (culto);

b)      attività di natura comunicativo-persuasiva (propaganda della propria fede).

La libertà religiosa riconosce a ciascuno la possibilità di adoperarsi per convincere altri a condividere la credenza, la fede che si ritiene vera e buona.

Ma molto spesso per un gruppo religioso la propaganda non ha la funzione generica ora descritta, bensì il ben preciso fine di procurare nuovi adepti, nuovi seguaci: ha per fine cioè il proselitismo. In linea di principio, quindi, il proselitismo costituisce parte indisgiungibile del diritto di libertà religiosa.

Il legislatore ha sempre conosciuto attività rivolte alla realizzazione dell’esperienza religiosa cristiana; è stato questo tipo di attività che ha favorito una determinata rappresentazione dei comportamenti e degli atteggiamenti religiosi.

La professione di fede religiosa si esterna in attività che, sulla base di una consapevole distinzione tra sacro e profano, nulla hanno a che vedere con la politica, e richiede ai fedeli, nella vita quotidiana, comportamenti che certamente non urtano contro i valori mediamente circolanti nella vita sociale, sono conformi alla morale corrente, che anzi dai contenuti etici connessi a quella professione di fede appare in qualche modo condizionata.

Normalmente, un messaggio religioso include anche regole di vita, precetti morali, l’osservanza dei quali è condizione indispensabile per il compimento dell’esperienza religiosa secondo quel peculiare messaggio.

Possiamo dire che il rispetto di queste regole di vita trova la sua fonte immediata nella coscienza, la quale pertanto assume uno spiccato carattere normativo. È possibile che un comportamento imposto ad un soggetto come dovere da parte dello Stato sia vietato come illecito da parte della religione, che un comportamento imposto ad un soggetto come dovere da parte della religione sia vietato come illecito da parte dello Stato.

Nelle ipotesi indicate, il soggetto viene allora a trovarsi in un drammatico conflitto interiore (c.d. conflitto di lealtà) fra due doveri di comportamento, l’uno richiesto dall’obbligo giuridico statale e l’altro richiesto dall’obbligo morale col primo contrastante; il soggetto si trova cioè di fronte al problema della duplice obbedienza.

Siccome l’ostacolo a questa particolare forma di libertà è costituito da una norma dell’ordinamento statuale, il riconoscimento di essa non può che avvenire attraverso la decisione dell’ordinamento di rinunciare alla pretesa di osservanza della norma da parte di quei soggetti per i quali l’adempimento del dovere comporterebbe il tradimento della normatività della propria coscienza. La possibilità di comportarsi secondo i dettami della propria fede presuppone allora una deroga.

Queste sgradevoli situazioni di conflitto sono apparse per lungo tempo insuperabili. Il frutto della riconosciuta libertà di coscienza, ossia di adesione alle opzioni etiche preferite, è inevitabilmente il “pluralismo dei valori di coscienza”, che si traduce allora nella possibilità di tenere comportamenti differenti da quelli pur ragionevolmente imposti alla generalità dei cittadini.

È possibile pertanto configurare, come espressione particolare di libertà religiosa, il “diritto alla testimonianza della fede”, ossia il “diritto di agire secondo i dettami del proprio credo”.

La normatività della coscienza non può avere riconoscimento assoluto, giacché anche la norma statuale può poggiare su valori meritevoli di tutela, ed è necessario pertanto un contemperamento: ecco perché queste deroghe non possono essere rimesse alla sensibilità individuale ed alla coscienza sociale.

È necessaria perciò una interpositio legislatoris, intesa a bilanciare la libertà di coscienza “con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”. Può essere consentita a comportamenti sorretti da motivi di coscienza “una determinata e limitata capacità di deroga a doveri costituzionali” (cosiddetta obiezione di coscienza).

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