Le relazioni tra Stato e confessioni religiose sono rette, nella Costituzione, da norme riconducibili ad un principio unitario secondo il quale tali relazioni devono essere definite attraverso il previo accordo con le confessioni religiose interessate (art. 7.2 e 8.3).

Si tratta di una prassi certamente conforme allo spirito della Costituzione, rispondente cioè ai principi di pluralismo e di partecipazione che la ispirano, che tuttavia non è formalmente imposta da alcuna disposizione costituzionale.

Nel caso delle confessioni religiose il ricordo alla trattativa è da ricondurre non solo ai principi del pluralismo e di partecipazione, ma anche al principio della laicità dello Stato. E ciò per il fatto che uno Stato laico in quanto tale, non può senza sconfessare se stesso intromettersi nel fatto religioso. Uno stato autenticamente laico rimette ai soggetti competenti il soddisfacimento di quei bisogni che egli stesso ritiene meritevoli di tutela.

E’ da chiedersi in che senso e in quali limitila Costituzionefa obbligo allo Stato di definire con le conf. Religiose i contenuti dell’ emananda normativa.

Si deduce innanzitutto che il vincolo del ricorso alla trattativa ed all’accordo non si estende a tutto il fenomeno religioso giuridicamente rilevante, ma solo a quelle sue manifestazioni che hanno un carattere di “ecclesiasticità”, nel senso che sono rapportabili ad una confessione religiosa.

Si deve poi precisare che il principio di bilateralità nella definizione delle norme sulle confessioni religiose opera in quanto si intenda pervenire ad una disciplina speciale di determinate materie e quindi, come tale, derogatoria rispetto al diritto comune.

Il principio trova, infine, una concreta esplicitazione in norme diverse, a seconda che si tratti della Chiesa cattolica o delle altre confessioni.

Per quanto riguardala Chiesacattolica, il secondo comma dell’ art. 7, precisa che i rapporti con lo Stato sono regolati dai Patti lateranensi e che le modificazioni dei Patti, accettate dalle due Parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

La modifica dei Patti, nei diversi protocolli diplomatici in cui si articolano (Trattato e Concordato, oltre alla Convenzione finanziaria), può dunque avvenire in via bilaterale attraverso ulteriori accordi tra le 2 Parti contraenti, da rendere poi esecutivi nell’ ordinamento dello Stato secondo le procedure previste per gli accordi internazionali (art. 80 e 87 Cost.).

In mancanza di accordo con l’altra Parte, lo Stato può ricorrere al procedimento di revisione costituzionale previsto dall’ art. 138 abrogando o modificando integralmente il secondo comma dell’ art. 7.

La Cortecostituzionale ha avuto modo di precisare che il secondo comma dell’ art. 7 non sancisce solo un generico principio pattizio da valere nella disciplina dei rapporti tra lo Stato ela Chiesacattolica, ma contiene altresì un preciso riferimento all’ accordo del 1929 e in relazione al contenuto di questo, ha prodotto diritto.

Le norme pattizie, dunque, non sono norme costituzionalizzate; esse presentano tuttavia una resistenza passiva all’abrogazione in via unilaterale statale pari alle norme costituzionali.

Le norme pattizie inoltre hanno la forza di derogare a norme costituzionali a meno che queste non esprimano principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato; conseguentemente le norma pattizie possono essere oggetto di controllo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, ma solo nei limiti del non contrasto con detti principi supremi.

La giurisprudenza ha escluso che siano da annoverare tra i principi supremi il principio di eguaglianza giuridica dei cittadini senza distinzione di religione, o il principio delle riserva di giurisdizione dello Stato; viceversa ha ritenuto che integrino detti principi supremi il diritto alla tutela giurisdizionale, nonché la tutela dell’ordine pubblico.

In relazione al carattere peculiare delle norme pattizie per rapporto al sistema gerarchico delle fonti del diritto italiano, la dottrina costituzionalistica ha collocato le stesse nell’ambito della categoria delle fonti atipiche o delle fonti pseudo-atipiche. Quanto poi al secondo comma dell’art.7, inrapporto alla fonte delle norme regolanti le relazioni tra Stato e Chiesa cattolica, la più moderna dottrina costituzionalistica ha veduto in esso una tipica norma sulla produzione giuridica, nella misura in cui disciplina le procedure necessarie alla produzione delle norme stesse.

Ulteriore problema è dato dall’interrogativo se la revisione del Concordato lateranensi, avvenuta col ritardato Accordo del 18 febbraio 1984, abbia fatto venire meno la copertura costituzionale.

Sembrerebbe più convincente la tesi per la quale dall’esame della volontà delle sue Parti contraenti l’Accordo del 1984, si deduce che esse intesero contenere l’accordo stesso nell’ambito dei Patti lateranensi, con la conseguenza di sottoporlo alla stessa disciplina di cui tali Patti godono all’ art. 7.2.

L’opinione secondo cui l’Accordo in questione apporta solo modifiche ha comunque una serie di riscontri di carattere formale. Innanzitutto nel preambolo dell’Accordo stesso, laddove è detto esplicitamente chela SantaSedeela Repubblicaitaliana hanno riconosciuto l’opportunità di addivenire alle seguenti modificazioni consensuali del Concordato lateranensi; e poi nel n. 1 dell’art. 13 dell’Accordo, nonché nella premessa del Protocollo Addizionale, dove si ripete lo stesso concetto.

Dal punto di vista sostanziale, poi, si deve notare come il procedimento seguito sia conforme al dettato dal secondo comma dell’ art. 7, che prevede la particolare procedura bilaterale proprio per le modificazioni da apportare al Concordato lateranense.

Resta comunque esatto il rilievo di quella dottrina per cui le citate leggi di ratifica e di esecuzione dell’ Accordo sono garantite dalla Costituzione anche per altra via: una formale, con riguardo al sistema delle fonti; l’altra sostanziale, con riferimento alla Costituzione in senso materiale.

Da un punto di vista formale poiché data la natura giuridica di trattato internazionale propria dell’accordo in questione, esso risulta garantito dall’art. 10, con riferimento al principio internazionalistico pacta sunt servanda. E poi da un punto di vista sostanziale, nel senso che l’art. 7 affermerebbe comunque il principio che la materia dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica attenga alla sfera costituzionale.

Questioni di non minore gravità solleva il terzo comma dell’art. 8, per il quale i rapporti tra Stato e confessioni acattoliche sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Trattasi della norma in cui si esprime il principio pattizio che informala Costituzioneanche in materia di rapporti dello Stato con le confessioni religiose acattoliche, principio sul quale in dottrina si è molto dibattuto.

Collocandosi gli ordinamenti delle confessioni acattoliche all’interno dell’ordinamento statuale, in quanto ordinamento primario, le Intese in questione hanno natura giuridica di negozi di diritto pubblico interno. In particolare esse costituiranno il presupposto, in senso giuridico, della legge che (art. 8.3) è chiamata a dare attuazione alle disposizioni stesse.

Opposte naturalmente le conclusioni laddove si ritengano anche le Intese come negozi di diritto pubblico esterno, di qui la conseguenza che la legge dello Stato in questo caso avrà la funzione di dare esecuzione alla stessa Intesa.

Secondo indicazioni della dottrina, si deve parlare in proposito non di legge di esecuzione dell’ Intesa, bensì di legge di approvazione dell’ Intesa, ossia quel tipo di legge che viene riguardata come deliberazione del Parlamento accessoria rispetto ad atti del Governo e che costituisce condizione per l’efficacia dell’ atto approvato.

Comunque si deve riconoscere che la norma di cui al terzo comma dell’art. 8, contiene una riserva di legge nella materia relativa ai rapporti con le confessioni acattoliche; ed in particolare si deve convenire sul fatto che le Intese costituiscono un limite al legislatore ordinario, che ad esse si deve attenere qualora intenda legiferare sulle confessioni acattoliche, derogando al diritto comune. Ciò comporta che le leggi emanate sulla base di Intese non possono essere abrogate, derogate o modificate da successive leggi ordinarie che non seguano il medesimo procedimento bilaterale di produzione, rientrando di conseguenza nella categoria delle leggi rinforzate. Allo stesso modo esse non possono essere abrogate con referendum in base all’art. 75.

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