Il legislatore favorisce la conciliazione delle controversie di lavoro, allo scopo di ridurre il contenzioso giudiziario e decongestionare gli organi e gli uffici preposti. Ciò si desume, anzitutto, dalla pluralità delle sedi extragiudiziale presso le quali può essere raggiunta una conciliazione che è valida ed inoppugnabile. Le sedi abilitate sono: le commissioni di conciliazione costituite presso le Direzioni territoriali del lavoro; le stesse Direzioni territoriali del lavoro in relazione alle funzioni di vigilanza loro assegnate; le sedi previste e regolate dai contratti collettivi; i collegi di conciliazione e arbitrato appositamente costituiti su iniziativa delle parti; le Commissioni di certificazione.

È stata modificata la disposizione che prevedeva un obbligo generale di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ma tale obbligo resta però previsto in talune specifiche ipotesi. Inoltre, nella più recente disciplina dei licenziamenti, è stata introdotta una specifica procedura che intende favorire la conciliazione stragiudiziale delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, mediante la detassazione e le decontribuzione delle somme erogate al lavoratore a titolo conciliativo.

Del resto, anche la conciliazione giudiziale è valutata favorevolmente dalla legge, quale strumento di abbreviazione della durata dei processi. Infatti, nella prima udienza, subito dopo l’interrogatorio libero delle parti, ma prima di ogni ulteriore atto istruttorio o procedimentale, il giudice “tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa”. Proposta che ha un rilievo giuridico, esplicito, in quanto il comportamento della parte che rifiuti di aderirvi “senza giustificato motivo” costituisce “comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.

Analoghe considerazioni possono essere svolte in relazione all’istituto dell’arbitrato di tipo irrituale, che ha formato oggetto di ripetuti interventi del legislatore dai quali si desume l’obiettivo, per ora non realizzato, di favorire la sua diffusione. Anche l’arbitrato irrituale, infatti, è uno strumento potenzialmente utile per ridurre il sovraccarico giudiziario, poiché, con esso, le parti deferiscono la decisione della controversia ad arbitri privati, e il lodo emesso costituisce una determinazione contrattuale che può validamente disporre dei diritti oggetto di lite.

Ciò spiega il sostanziale disinteresse che il legislatore mostra nei confronti del modello legale dell’arbitrato rituale. In quest’ultimo, infatti, gli arbitri decidono applicando le norme di diritto, ed il lodo emesso produce gli effetti della sentenza, cosicché né le parti possono fare affidamento sulla stabilità della decisione arbitrale, né si realizza l’interesse pubblico alla deflazione del contenzioso giudiziale. Le disposizioni relative all’arbitrato rituale non trovano applicazione all’arbitrato irrituale.

L’arbitrato può essere svolto non solo nelle sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi, ma anche conferendo mandato alle Commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni territoriali del lavoro, o alle Commissioni di certificazione, ovvero, ancora, ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato liberamente scelto dalle parti stesse in base ai criteri prestabiliti dalla legge. È così istituito un collegamento tra conciliazione ed arbitrato irrituale, che è confermato dalla previsione in base alla quale il lodo arbitrale “produce tra le parti gli effetti di cui agli articoli 1372 e 2113, quarto comma, del Codice civile”.

Produce, quindi, gli effetti di un contratto, che è valido anche ove comporti la disposizione di diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi, salvi restando i generali motivi di impugnazione previsti dall’articolo 808-ter del Codice di procedura civile.

 

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