Anche la linea di politica del diritto fatta propria dal legislatore italiano è stata quella del passaggio dal garantismo individuale al cosiddetto garantismo collettivo: la legge continua a garantire ai lavoratori alcune tutele, ma contemporaneamente, attribuisce alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la possibilità di apportarvi deroghe, quando ciò sia ritenuto dalle stesse necessario per consentire alle imprese di mantenere la propria competitività sui mercati sempre più concorrenziali e difendere così i livelli occupazionali; la legge si limita a regolare una materia in linea di principio, attribuendo al contratto collettivo il compito di integrarla.

Questa modificazione del rapporto tra legge e contratto collettivo ha posto problemi in ordine alla fonte di legittimazione del potere del sindacato di stipulare accordi che, derogando alla norma di legge, incidono anche negativamente su posizioni giuridiche individuali.  L’esperienza storica, ha messo in evidenza la carenza di un sistema di regole certe per la individuazione dei soggetti legittimati alla trattativa, alla composizione delle controversie, alla proclamazione e allo svolgimento degli scioperi.

Tale carenza non era avvertita quando il sistema delle relazioni sindacali era fondato e garantito dalla posizione egemonica delle tre grandi considerazioni generali dei lavoratori.  Il potere di mediazione e di controllo esercitato da queste ultime garantiva da solo il rispetto del nucleo essenziale di regole che sono proprie di ogni sistema di relazioni industriali.

I profondi mutamenti del sistema economico e produttivo hanno prodotto un indebolimento di tale posizione egemonica, insidiata dall’insorgere di sindacati “autonomi”, nonché di gruppi spontanei molto attivi e animati da una forte volontà di affermazione dell’interesse del gruppo rappresentato, anche in contrasto con gli interessi delle altre categorie di lavoratori (cosiddetti COBAS): la consapevolezza di questo mutamento ha generato la diffusa domanda di una esplicita formalizzazione delle regole del gioco.

Le stesse grandi confederazioni appaiono sempre meno diverse tra loro, ma ciascuna all’interno si presenta sempre meno come comunità di interessi omogenei e sempre più quale centro di mediazione tra interessi di gruppi diversi e talvolta competitivi.

Il sindacalismo italiano presenta, poi, due posizioni di principio che tendono a collidere tra loro.  Mentre nella Cgil è forte la tendenza a privilegiare l’autonomia di base (sindacato-movimento) e a interpretare come base non solo quella composta dagli aderenti, ma l’intero gruppo professionale di riferimento, la Cisl è più orientata a privilegiare il momento organizzativo (sindacato-associazione o istituzione).  Per la Cisl, democrazia sindacale e democrazia nell’associazione sono sinonimi, per cui la prima si garantisce attraverso l’effettiva partecipazione degli iscritti alle determinazioni dell’associazione stessa.

Per la Cgil, invece, il problema della democrazia sindacale è relativo ai rapporti tra le organizzazioni e i lavoratori destinatari della loro azione, a prescindere dall’adesione formale alle prime: di qui la tendenza a valorizzare strutture rappresentative elette da tutti i lavoratori, o di democrazia diretta, come le assemblee e i referendum, che coinvolgano parimenti tutti i lavoratori anche quelli non sindacalizzati.

Un importante contributo viene dall’accordo della 23 luglio 1993 che ha individuato con precisione i soggetti titolari dei poteri di rappresentanza e l’architettura del sistema di contrattazione collettiva.

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