La realtà italiana, storicamente fondata su grandi organizzazioni sindacali nazionali, ha dato vita ad una forte centralizzazione della contrattazione collettiva. Centralizzazione che ha consentito di assicurare l’applicazione generalizzata di livelli minimi di trattamento economico e normativo del lavoro nei diversi comparti o settori produttivi. L’applicazione generalizzata dei contratti collettivi nazionali di lavoro ha consentito di evitare che la concorrenza tra imprese e la concorrenza tra lavoratori fosse basata sul dumping sociale, ossia la tendenza assunta da alcune imprese di localizzare le attività più redditizie e produttive in zone in cui sono più vantaggiose.
In una prospettiva ancora più ampia, il “governo” centralizzato della disciplina sindacale ha consentito di coniugare coesione sociale e politiche di sviluppo. Da tempo, però, il sistema centralizzato di contrattazione collettiva non è più in grado di produrre effetti positivi né per le imprese, né per i lavoratori, in quanto quel sistema – in un mercato divenuto globale – non è più in grado di svolgere efficacemente il ruolo di regolazione della concorrenza, essendo il suo campo di applicazione legato al territorio nazionale e non potendo quindi vincolare le imprese situate all’estero.
Ne è derivato che, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, il valore delle retribuzioni è entrato in una lunga fase di stallo, tuttora in essere, facendo emergere, in tutta la sua criticità, la questione dell’impoverimento di quote crescenti di popolazione. Tutto ciò, oltretutto, è avvenuto mentre anche la competitività delle imprese si è andata riducendo a causa dello scarso incremento degli indici di produttività rispetto ai paesi esteri concorrenti.
Inoltre, è da considerare che l’uniformità della disciplina dettata dai contratti collettivi nazionali di categoria non può tenere conto delle condizioni specifiche delle singole realtà aziendali, che risultano sempre più differenziate in relazione ai tipi e metodi di lavorazione, professionalità utilizzate, mercati di riferimento. Negli ultimi anni, le parti sociali hanno, quindi, avviato trattative dirette a ridefinire modelli e struttura della contrattazione. Ma gli esiti sono fortemente condizionati dalle differenti valutazioni che le parti stesse hanno in ordine alla funzione del contratto nazionale, essendo evidente che l’effettiva diffusione della contrattazione di secondo livello dipende dagli spazi che le vengono lasciati in materia retributiva dai contratti nazionali.
Attualmente, in base al Testo Unico sulla rappresentanza Confindustria-Cgil, Cisl e Uil del 2014, è previsto che la funzione del contratto nazionale è quella “di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”. Di conseguenza, la contrattazione aziendale può essere esercitata soltanto in relazione alle materie delegate dallo stesso contratto nazionale.
È, però, prevista una generale competenza del livello aziendale ad “attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi”, sia pure “nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi aziendali di lavoro”. Ed è altresì stabilito che, ove il contratto aziendale non regoli tali limiti e procedure, le “rappresentanze sindacali operanti in azienda”, sia pure “d’intesa” con le organizzazioni sindacali territoriali, possono comunque definire “intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione di lavoro, gli orari e l’organizzazione del lavoro”, in vista dell’obiettivo di “gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”.