Occorre a questo punto chiedersi quale ruolo possa spettare ad un organo di giustizia costituzionale in una fase di transizione politica che abbia in prospettiva radicali mutamenti costituzionali. Sul piano della giustizia costituzionale italiana, gli anni recenti hanno fatto registrare un ampliamento nell’esercizio delle competenze della Corte a più alto tasso di politicità (es. conflitti tra poteri, ammissibilità del referendum). Si è quindi manifestata una tendenza verso l’accentuazione di un ruolo arbitrale, di mediazione della Corte nel conflitto politico:

  • conflitti tra poteri dello Stato: negli ultimi anni i conflitti istituzionali hanno investito tutti gli snodi essenziali del nostro governo e principalmente quelli connessi al sistema di rapporti tra Parlamento e Magistratura. La Corte è stata quindi investita da una massa consistente di domande di arbitraggio, domande che hanno posto in gioco la definizione di crinali piuttosto sottili tra i vari poteri. Con riferimento al rapporto tra autonomia politica delle Camere e principio di legalità, in particolare, occorre citare i conflitti promossi nel 1993 dalla Procura di Milano in materia di immunità fino alla sent. n. 379 del 1996 in ordine ai procedimenti per falso nei confronti dei parlamentari <<pianisti>>;
  • giudizio di ammissione del referendum: di recente si è assistito ad una massiccia espansione del referendum, fenomeno questo che ha indotto la Corte ad uscire nelle sue pronunce di ammissibilità dai confini dell’art. 75 Cost. Essa ha quindi imboccato la linea di un bilanciamento tra l’interesse dei promotori del referendum e l’interesse del corpo elettorale ad esprimere una scelta libera e consapevole. Attualmente, in sostanza, la Corte non ha più alle spalle una norma costituzionale da applicare, ma solo un bilanciamento tra due interessi di cui tener conto;
  • spesa pubblica (attenzione a equilibrio finanziario): per anni la Corte si era attestata nella difesa rigorosa del principio di uguaglianza, prescindendo dai costi delle sentenze. Di recente, tuttavia, specialmente dopo la sent. n. 240 del 1994 (integrazione dei minimi pensionistici), si è avvertito un mutamento di atteggiamento della Corte, nel senso di una maggiore sensibilità alle esigenze di equilibrio finanziario:
    • le sentenze di illegittimità sopravvenuta rappresentano un espediente che la Corte ha introdotto per bloccare la retroattività delle sentenze e limitarne i costi: quando si dice che una legge è diventata incostituzionale a partire da una certa data, infatti, si fanno salvi gli effetti precedenti a quella data;
    • le sentenze additive di principio sono pronunce con le quali la Corte introduce una norma che può determinare dei costi: esse, infatti, in nome del principio di uguaglianza, estendono un trattamento privilegiato ad una nuova categoria oppure eliminano una restrizione ingiustificata ad un diritto sociale. Nel momento in cui la Corte fa la sentenza additiva, tuttavia, essa si preoccupa che dalla sua pronuncia non derivi immediatamente un’incidenza sul bilancio pubblico (equilibrio finanziario). Essa viene quindi a rinviare l’applicazione concreta della norma aggiunta al legislatore, limitandosi a dare dei criteri direttivi (es. la sent. n. 243 del 1993, in ordine al calcolo dell’indennità integrativa speciale nella buonuscita delle pensioni, rinvia al legislatore per la definizione di tempi e modi per l’attuazione).

Collegata a questa nuova tendenza è anche l’istituzione all’interno della Corte di un ufficio di valutazione delle sentenze, il quale rappresenta una svolta organizzativa che dà il senso del mutamento della qualità del tipo di giustizia costituzionale;

nuovo codice di procedura penale: a partire dal 1990 il nuovo codice di procedura fu fortemente contestato dalle categorie professionali. La Corte venne quindi investita da una massa consistente di questioni, venendo a trovarsi di fronte una particolare difficoltà: mentre il nuovo codice rispondeva ad un disegno organico di riforma, infatti, le questioni di cui la Corte veniva investita erano tutte questioni di dettaglio, che non le consentivano di considerare il quadro complessivo della riforma. La Corte, quindi, ha dovuto dare una risposta alle domande specifiche che i magistrati le ponevano e, al tempo stesso, considerare quelle che erano le finalità di fondo della riforma per evitare di comprometterle. L’organo costituzionale, in sostanza, ha svolto un ruolo arbitrale tra gli interessi promossi dal legislatore e quelli contrapposti degli operatori di giustizia che si opponevano

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