Le camere sindacano l’operato del governo non solo mediante l’approvazione degli atti legislativi predisposti dall’esecutivo, ma anche esplicando la loro funzione ispettiva per mezzo di interrogazioni. La presentazione delle interrogazioni e delle interpellanze spetta ad ogni singolo parlamentare. Precisamente, l’interrogazione consiste “nella semplice domanda, rivolta per iscritto, se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al governo, o sia esatta, se il governo intenda comunicare alla camera documenti o notizie o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato”. Per converso l’interpellanza “consiste nella domanda, rivolta per iscritto, circa i motivi o gli intendimenti della condotta del governo in questioni che riguardino determinati aspetti della sua politica.

Sebbene giuridicamente distinte, interrogazioni ed interpellanze tendono però a confondersi le une con le altre; ed anche la loro disciplina normativa risulta fondamentalmente comune. Ma ciò non toglie che l’incisività di entrambi gli strumenti ispettivi rimanga molto scarsa: dal momento che il governo è sempre in grado di bloccare la discussione dichiarando di non poter rispondere oppure differendo la risposta. Il regolamento della camera aggiunge che l’interpellante può “promuovere una discussione sulle spiegazioni date dal governo”, facendosi promotore di un’apposita mozione. Analoghe previsioni non si ritrovano invece nell’attuale regolamento del senato.

Più incisivo si dimostra lo strumento dell’inchiesta. Oggi, al contrario, l’art. 82 primo comma Cost., precisando che “ciascuna camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse”. L’art. 82 non predetermina i settori nei quali si possono svolgere le inchieste parlamentari; sicché resta inteso che il parlamento è legittimato a servirsene dovunque ravvisi problemi.

In particolar modo ciò ha consentito, da una parte, l’effettuazione di inchieste legislative; e d’altra parte, lo svolgimento di inchieste politiche nel senso più stretto del termine. Ma la soluzione preferibile è ormai nel senso che le stesse commissioni possano stabilire un “segreto funzionale”, nei limiti consentiti dagli atti istitutivi e nella misura ritenuta necessaria al conseguimento dei loro scopi istituzionali.

Più ardua è la questione dei segreti opponibili alle commissioni, per la salvaguardia di altri interessi giuridicamente rilevanti e limitativi dei poteri giurisdizionali. Si è posto l’interrogativo se questi limiti siano assolutamente inderogabili o se, al contrario, esista un mezzo costituzionalmente atto a far superare i limiti stessi. Un’autorevole corrente ha risposto che soltanto le commissioni istituite dalle singole camere sarebbero tenute ad operare sul medesimo piano delle autorità giudiziarie; mentre le inchieste fondate su apposite leggi potrebbero svolgersi anche al di là dei limiti in questione.

Ma la tesi rimane criticabile. Senonché anche e soprattutto a questo punto, la prassi risulta quanto mai alterna. In un primo tempo, essa ha contraddetto l’ipotesi di chi voleva allargare i poteri spettanti alle singole commissioni. In un secondo tempo essa ha invece offerto vari esempi di specifiche disposizioni legislative deroganti al regime generale dei segreti.

Nel valutare la legittimità di siffatte previsioni, occorre per altro distinguere. Quanto al segreto d’ufficio, la generalità dei giudici dispone attualmente del potere di accertarne l’effettiva sussistenza. Quanto poi al segreto di stato, il conseguente “dovere di astenersi dal testimoniare” può essere rimosso dal presidente del consiglio dei ministri, su richiesta dell’autorità procedente che non ritenga fondata la pretesa segretezza. Al di là di queste aperture rintracciabili nell’ordinamento vigente, il parallelismo fra commissioni d’inchiesta ed autorità giudiziarie non è legittimamente derogabile. Se mai ciò che riduce le inchieste parlamentari ad un mezzo ispettivo spuntato e scarsamente efficace consiste nella circostanza che si tratta pur sempre d’uno “strumento di governo della maggioranza”.

Indipendentemente dalle vere e proprie inchieste, i regolamenti parlamentari hanno comunque previsto che le commissioni permanenti, possano “disporre, previa intesa con il Presidente della camere”, indagini conoscitive dirette ad acquistare notizie, informazioni e documenti utili”; con riferimento a tutte le funzioni, non solo legislative e di controllo ma anche di indirizzo spettanti in Italia al parlamento. Nell’ambito delle indagini conoscitive, tuttavia, le commissioni permanenti non sono affatto dotate dei poteri coattivi spettanti alle commissioni d’inchiesta ma possono solo “invitare qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili”. In altre parole, i soggetti convocati non sono tenuti a presentarsi, né hanno il dovere giuridico di testimoniare il vero.

Per completare il quadro, occorre accennare conclusivamente ad una eterogenea serie di commissioni bicamerali, formate in egual numero da deputati e senatori. Costituzionalmente prevista è la sola Commissione parlamentare per le questioni regionali, composta da venti deputati e da venti senatori. Ma la commissione stessa è stata inoltre inserita nel procedimento formativo di varie leggi delegate concernenti il passaggio delle funzioni amministrative statali alle regioni, giacché il governo si è visto obbligato ad acquisirne il previo parere.

Al di là della costituzione varie altre commissioni bicamerali sono state istituite per legge, determinando in tal modo una duplice serie di obiezioni: primo, se ciò fosse in linea con la suddivisione del parlamento in due camere; secondo, se non si dovesse ritenere invasa la riserva di regolamento. I problemi accennati si pongono quanto alla commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; come pure nei riguardi della commissione per il controllo degli interventi del Mezzogiorno.

 

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