Gli atti normativi posti in essere dai competenti organi delle comunità europee concorrono a formare non soltanto il diritto comunitario, ma anche il diritto applicabile dalla generalità dei soggetti dell’ordinamento italiano, con particolare riguardo alle autorità giurisdizionali. Per meglio dire gli atti denominati direttive dovrebbero vincolare i solo stati membri “per quanto riguarda il risultato da raggiungere.

Al contrario i regolamenti previsti dallo stesso articolo sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli stati membri: con la conseguenza che essi entrano a comporre il sistema delle fonti interne, o interferiscono nel modo più stretto con il sistema medesimo. Nel dire questo non si vuole intendere che tali fonti comunitarie siano state nazionalizzate, mediante un rinvio ricettizio. Anche in questo caso, piuttosto, quelli che per l’ordinamento comunitario costituiscono altrettanti atti normativi, nella prospettiva dell’ordinamento italiano assumono la veste dei fatti produttivi di diritto.

Ma nella specie, sarebbe superfluo e fuorviante immaginare che operi un meccanismo analogo a quello già  considerato peculiare del diritto internazionale provato, per cui si produrrebbero nel nostro ordinamento “norme interne di adeguamento” identiche a quelle prodotte dalla Comunità. Molto più semplicemente, i regolamenti comunitari s’impongono come tali, per effetto dell’ordine di esecuzione del trattato istitutivo della CEE.

Rimane fermo che gli atti normativi comunitari vanno interpretati e sindacati dalla corte di giustizia delle comunità europee e non dai vari giudici nazionali. Diritto interno e diritto comunitario sono fra loro integrati, tanto più che non esiste fra l’uno e l’altro una netta distinzione di competenze.

Per quanto siano stati discussi i loro rapporti con le leggi statali ordinarie, si è sempre considerato pacifico che i regolamenti i questione, ben oltre il loro nomen juris, avessero comunque un valore primario, essendo immediatamente subordinati alla costituzione; e ciò ha posto subito il problema del loro fondamento costituzionale.

Ma in che consistono le limitazioni di sovranità, derivanti dall’immediata applicabilità dei regolamenti comunitari? E quali sono, in particolar modo, i criteri di risoluzione dei possibili contrasti fra quelle previsioni “regolamentari” e le disposizioni legislative ordinarie dello stato? La corte costituzionale si è adeguata alla corte di giustizia delle comunità europee sostenendo che le norme dei regolamenti comunitari vanno immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria; e che, di conseguenza, qualunque giudice deve soltanto accertare che la “normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame”, secondo i canoni interpretativi offerti dalla corte di giustizia.

In questa luce poco importa che nel medesimo campo vigano leggi statali ordinarie, anteriori o successive nel tempo: la necessaria applicazione del regolamento esige, infatti, la disapplicazione della legge interferente, senza che da ciò derivi una questione di legittimità, riservata alla cognizione dell’organo della giustizia costituzionale italiana. Resta il problema delle indispensabili garanzie costituzionali.

La corte stessa ha precisato, a tal proposito, “come la legge di esecuzione del trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inviolabili della persona umana”.

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